Regia di Jim Jarmusch vedi scheda film
Scorre l’acqua
Scorre come tra i capelli di una ragazza.
Molti la chiamano pioggia
Il tempo è la quarta dimensione. Aspettare il tempo senza aggredirlo, scendere a patti con esso, assaporarlo come un long drink dal gusto contraddittorio, acidulo e dolcissimo, frizzante e anodino. Il tempo la fa da padrone a Paterson, e per Paterson (Paterson città, luogo, ma anche Paterson persona. Paterson dove vive Paterson e dove hanno passato le giornate, in un tempo destinato alla memoria, personaggi di vario tenore e valore, anche l’anarchico Gaetano Bresci, ormai declassato al rango di storiella di folklore che si raccontano sul bus due studenti annoiati). Mai temere il tempo, se il tempo sa essere poesia, se c’è ancora da dedicarne un consistente spaccato all’amore, se esso schiude le porte della fantasia, della percezione di un altrove, se consente voli pindarici di immobile, dolcissima bellezza.
Ed anche Jarmush vola, senza dare nell’occhio. Getta sulle cose uno sguardo enigmatico, asfissiante e consolatorio, non giudica, ma registra, annota, regala la difficile arte dell’empatia. Segue, bracca il suo (anti)eroe, gli regala il volto serafico della serenità anelata, rincorsa, infine faticosamente raggiunta. Gli mette tra i piedi ostacoli di ogni genere, lo costringe tra le quattro mura della famiglia e del sentimento che si autoalimenta ed autorappresenta (non c’è una scena di sesso nel film, nemmeno ipotizzabile: l’amore è parola che si intride di incaponimento affettuoso, è racconto delle giornate, è mera ipotesi di allargamento del plotone familiare), e tuttavia gli regala la visione a più dimensioni: il tempo che scorre ma non passa ha la forza quieta di una poesia che si snocciola piano, in un taccuino che resterà segreto ed inconoscibile, come quella tristezza sottotraccia mai espressa, come quel cane, quel bar, quella moglie dai capelli ricci che sono i totem della vita incolore e dalle dimensioni prestabilite, tali da non contemplare il tempo, ovvero non in grado di misurarne la misteriosa e soffice potenza taumaturgica.
Difficile dire perché Paterson sia un film di così meravigliosa leggerezza, quasi etereo nella sua assoluta mancanza di presunzione e magniloquenza. Un’opera fatta di iterazioni, personaggi e cose che si rincorrono, topoi che si ripetono (le coppie di gemelli, il bianco e nero della casa, le sveglie mattutine, la scansione dell’avanzare cronografico delle cose – Sunday, Monday, e via andare-). Un oggetto fatto della stessa sostanza della antiretorica, quasi calligrafico, trapuntato di veloci pneumi, che non si guarda allo specchio e si rintana in una nuvoletta di sospensione. Eppure un film che comunica beltà, che lascia interdetti, che ti scopri a ripensare giorni e giorni dopo con la stessa dolcezza degli innamorati, già sulla via della (pericolosa) assuefazione sentimentale. I motivi sono probabilmente due.
LA POESIA. Cos’è la poesia se non la più incontrollabile e perfetta via di fuga? Nel destino dell’autista di bus che va incontro al suo percorso di quotidianità, fa irruzione il soffio vitale del verso. Non importa quanto armonioso, quanto levigato. La poesia è l’affidamento che l’uomo qualunque ripone su un futuro di bellezza, è la gloriosa arte del segreto, è la capacità di registrazione in posti dove nulla c’è di registrabile. “Dovresti fare almeno una fotocopia del tuo taccuino”. Non occorre, in realtà: il Parnaso non è per tutti, è il monte dove isolarsi alla ricerca dell’altro se stesso, è lo stendere in foggia furiosa l’alternarsi dei sentimenti più incontrollati, è il razionalizzare (e razionare) il vorticoso passaggio dell'emozione. “A casa abbiamo la scatola di fiammiferi più bella del mondo”. C’è vita in questa poesia dei giorni che vanno: c’è acutezza, c’è capacità di andare oltre i caratteri delle lettere, c’è il trovare fantastico anche il solo girare ogni mattina la tazza con i fiocchi d’avena. Perché, oltre, c’è quella fiamma, che nasce dalla scatola, e finisce dritta nello sconfinato campo visivo dell’immaginazione. La poesia drizza le antenne del possibile, intercetta le infinite possibilità di vita, aiuta nella accettazione di sé, miracoloso unguento di solitaria socialità.
IL CASO. La poesia non dovrebbe andare a braccetto con il caso. E, infatti, la poesia inventa casi, non ne è schiava. Mica vero. In quella Paterson, su quel Paterson, nel film omonimo, il caso urla diritti, rivendica posizioni. Il caso è l’imprevisto: è una bambina che declina versi, ed accende una piccola fiammella di invidia e salutare modestia; è un gesto che diventa eroico anche in mancanza di presupposti (nel diritto penale si chiamerebbe impossibilità del reato per inesistenza dell’oggetto; qui diventa una inoffensiva pallottola di polistirolo che veicola emozioni e gesti da ricordare); è un’uscita imprevista per festeggiare un modesto guadagno; è un animale (essere il quale, per quanto possano dirne i crociati delle meravigliose sorti e progressive della faunistica, non possiede in sé la linfa della retorica, la scappatoia dell’immaginazione, in una parola la poesia) che distrugge il passato e le sue parole, la vita e le emozioni fin lì accumulate, le tracce, le possibilità di futuro che diventano, in un gioco dell’oca dalle mille combinazioni, mera occasione di ripartenza; è un turista orientale che dispensa massime, rincorre poesia e concede regali. Taccuino bianco: ci (ri)siamo, ancora e sempre. La sconfinata possibilità di rinascere, di emozionarsi, di scriverne, di volare.
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta