Regia di Jim Jarmusch vedi scheda film
"A volte, le pagine vuote offrono maggiori possibilità" ------- (Il turista giapponese) ------
Paterson è Paterson. Paterson è moltiplicato per due, in quanto essere gemelli, a Paterson (città) sembra quasi una cosa inevitabile. Anche Paterson (lui) e sua moglie Laura, più che una coppietta felice, danno spesso l’idea di essere due complementari identici, di origine monozigotica, fatti l’un per l’altra non dalla volontà, ma da un benevolente destino, dalla trama di un racconto fantastico solo accidentalmente tanto simile alla realtà.
Jarmush ci ha abituati a camminare su questo crinale, sul confine tra immaginato e vissuto, tra ciò che è solo probabile e ciò che sembrerebbe certo. Ha impostato così molti dei suoi film, a partire da quello del suo esordio: “Stranger than Paradise” (al quale questo “Paterson” somiglia molto: strutturato in “strisce”, molte dissolvenze al nero) era anch’esso una favola, una concretissima favola, e se nel finale di “Stranger” Jarmush scelse di non mostrare “l’Angelo” che procurò la fortuna di Eva, stavolta questa “Entità” prende corpo nei panni di un improbabile turista giapponese appassionato di poesia, attraverso il quale Paterson può risorgere a nuova vita dopo l’incontro con “il Male”. Un “Male” naturalmente sempre molto “leggero”, com’è nello stile del regista (mai vampiri “seri”, cioè escludendo quelli delle saghe per ragazzetti, sono stati leggeri come quelli di “Only Lovers Left Alive”, ugualmente dicasi per i mafiosi di “Ghost Dog” ), tanto leggero che spetta ad un simpaticissimo Bulldog inglese (Marvin) il compito di interpretarlo. Marvin (elemento cardine nella sceneggiatura) non è il solito cagnolino che fa le feste quando torna a casa il padrone, o che smania per il suo giretto serale, o che corre dietro ad una palla: Marvin vive di brevi grugniti sopra la sua coperta (l’unica cosa colorata dentro una casa tutta in bianco e nero, tanto per sottolineare la sua peculiarità), obbedisce e non obbedisce con la stessa indifferenza e il medesimo distacco, e non a caso è oggetto di attenzione, in una scena, dell’unica incursione malefica, dell’unico vento negativo (una macchina di teppistelli che lo adocchia di sfuggita) che soffia per un istante nel clima mite e pacato di una comunità tranquilla dove, solo in apparenza, non accade nulla, o almeno, nulla di male.
E proprio Paterson (città) è un luogo che solo Jarmush poteva scegliere, metafora del suo cinema: tranquilla cittadina del New Jersey (Wikipedia le assegna 130 mila abitanti), sulla carta una periferia del mondo senza ruoli di rilievo nella Storia d’America, nasconde invece nelle pieghe della Sua Storia (nonchè nel “Wall of Fame” del bar frequentato dal protagonista) una serie impensabile di personaggi a vario titolo famosi e/o di un certo rilievo: da Rubin “Hurricane” Carter a Lou Abbot (quello di Gianni e Pinotto), Allan Ginsberg, Gaetano Bresci, e ovviamente il poeta Willam Carlos Williams.
Ottima prova d’attore sia per Adam Driver, che con la sua ammaliante voce da basso recita le poesie al ritmo di come queste nascono e crescono sulle pagine del suo taccuino, sia per Golshifteh Farahani, che dietro la sua aria trasognata e svampita nasconde le ambizioni e i talenti di una vera artista, nonché sicuramente la prova di Nellie (Marvin, Palma d’Oro a Cannes, ovviamente nella sezione apposita).
Importante anche il contributo musicale degli Sqürl (la solita atmosfera rarefatta tanto cara a Jarmush) e naturalmente un grosso applauso al vero protagonista del film, Ron Padgett, autore dei bellissimi versi del taccuino segreto di Paterson.
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