Regia di Jim Jarmusch vedi scheda film
Sta’ a vedere che il miglior regista USA degli anni 10 potrebbe essere uno di quelli che davano già per spacciati negli anni 90. Jim Jarmusch dalla fine dello scorso decennio ha inanellato una trilogia di film che, da una parte, ha rifondato con genio, coerenza e ispirazione rare la propria poetica surreale, laconica e “stralunata”, dall’altro ha offerto una visione acuta e puntale sul presente. “The limits of control” era un giro a vuoto condotto a ritmo di tormentoni, ripetizioni, rime visive, una specie di riedizione del surrealismo sadico e beffardo di Don Luis Bunuel; “Solo gli amanti sopravvivono” sostanziava quell’inerte catalogo di oggetti, frasi e movimenti fini a se stessi, per comporre una trasparente allegoria della contemporanea società virtualizzata.
“Paterson” ricalca la stessa anti-narrazione ciclica del primo film e riprende l’approccio hipster del secondo, trasferendolo dall’opprimente Detroit ad una sonnacchiosa cittadina del New Jersey. Il film si articola come una partitura minimalista, scandita dalla routine quotidiana di un umile autista di autobus aspirante poeta, un percorso che si ripete quotidianamente con pochissime variazioni: sveglia alle 6.15, bacino alla moglie, due chiacchiere col collega prima di entrare in turno, le ore di lavoro che passano fra le soggettive della strada e i discorsi dei passeggeri, qualche riga buttata giù sul taccuino a fine giornata davanti ad un fiume, la birretta serale al solito bar. E’ difficile trovare nella Storia del cinema un film meno drammatico di questo. Ce ne sono stati di film in cui “non succede niente”, ma questo li batte tutti. E’ un miracolo che un’opera così concepita abbia trovato la luce delle sale italiane.
Il senso del film sta tutto nella ricerca di una qualche sorta di espressività artistica e poetica in una quotidianità altrimenti banale, preda della chiacchiera (da bar, da bus) e del campanilismo (l’elenco delle presunte celebrità legate a Paterson), dove l’unico momento di apparente suspense viene da un amante respinto e dal suo ridicolo tentativo di farla finita. E se tale ricerca espressiva per la moglie si traduce in uno stucchevole artigianato domestico tutto incentrato sul bianco e nero, per il protagonista (che si chiama, significativamente, Paterson, come se fosse in totale simbiosi con lo spirito del luogo in cui vive e quindi la persona più portata ad esprimerne gli umori) la via prescelta è quella della poesia: la parola è scritta sul taccuino e noi la vediamo in sovraimpressione sullo schermo, mentre scorrono le immagini che la ispirano. Sono questi i momenti più “seri” del film, quelli più malinconici e meditativi, quelli meno umoristici. Jarmusch sembra irridere bonariamente certe bizzarrie dell’arte contemporanea e certe manie hipster (incarnate dalla moglie), mentre ripone ancora grande fiducia nella parola.
“Paterson” è però anche altre cose. Ritratto della provincia americana, una specie di Lynch-town senza perversioni. Ma soprattutto, elogio della gente comune, dei timidi, dei sensibili. Il protagonista ha l’espressione corrucciata e melanconica di un memorabile Adam Driver, il suo impaccio, la sua gentilezza: quando si dice “recitare in sottrazione”…Il suo personaggio è davvero d’altri tempi: non ha lo smartphone, scrive tutto a penna sul suo taccuino. E quando questo gli viene sbranato dal suo barboncino (una presenza quasi umana, un po’ come il Balthazar di Bresson), è come se gli si svuotasse l’anima. Paterson è un talento sprecato, una figura da circoli intellettuali di grandi città, che si trova confinato in una realtà poco stimolante. E ne soffre in silenzio, sommessamente. Non si ribella, non si sfoga. Non trova nemmeno il coraggio di pubblicare le sue poesie, né di dichiarare la sua passione per la scrittura ad un turista giapponese anch’egli poeta. Si emoziona all’incontro con una bambina di 10 anni che gli legge una sua bellissima poesia.
A questo film, meno geometrico di “The limits of control” e meno geniale di “Solo gli amanti sopravvivono”, si può giusto rimproverare una seconda parte meno brillante della prima, un’ispirazione che cala strada facendo e, con essa, il ritmo. Non è un capolavoro, dunque, ma la conferma dello stato di grazia di un autore decisamente ritrovato. “Paterson” ci suggerisce che esiste una bellezza implicita nelle cose, nei luoghi, nei volti, nelle situazioni più ordinarie, una bellezza che ha solo bisogno delle parole giuste per essere colta. Il mondo contemporaneo conteso fra realtà e virtualità, di cui Jarmusch costruisce un’allegoria, è dominato da oggetti, immagini e parole futili, vuote, fini a se stesse. Agli spiriti più sensibili e più umili, agli “unsung heroes” della letteratura dilettantesca, il compito di riscattare questa sterilità e ridare un senso all’esperienza quotidiana.
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