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Il candidato

Regia di Michael Ritchie vedi scheda film

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La recensione su Il candidato

di Peppe Comune
7 stelle

Bill McCay (Robert Redford) è un giovane ed attraente avvocato californiano scelto dal partito Democratico come proprio candidato al Senato. Figlio di un ex governatore della California (Melvyn Douglas), McCay dovrà vedersela col senatore uscente Crocker Jarmon (Don Porter, un repubblicano scaltro e navigato che parte nettamente favorito per la vittoria finale. Coaudivato da uno staff variegato, in cui spicca la figura di Marvin Lucas (Peter Boyle), suo più stretto collaboratore, Bill McCay parte subito dando di sé un’idea di persona fresca e trasparente, pieno di valori puliti pronti solo ad essere messi in pratica una volta diventato senatore. Ma si accorge presto che per vincere le elezioni è necessario smussare angoli e stringere anche delle mani che non si vorrebbero. Col risultato di scoprirsi cambiati dentro senza neanche sapere di preciso in che cosa e perché.

 

 

“Il candidato” di Michael Ritchie è un film che porta tutto il peso dei suoi anni se ci riferiamo all’architettura della messinscena, capace di fornirci ancora un punto di vista utile ed attendibile se, invece, ci concentriamo sui moventi strategici della macchina elettorale che sono l’elemento portante dell’intera struttura narrativa. Rappresenta un tipico esempio di “cinema liberal“ anni settanta, un filone cinematografico che faceva dell’impegno civile e politico il suo punto di maggior forza, teso com’era a far emergere gli aspetti disfunzionali di un sistema paese che, con ostentata vanità, si voleva definire come il migliore possibile. Non è certamente uno dei migliori film di quella stagione aurea del cinema a “stellestrisce”, ma ha il merito particolare di concentrarsi su quei meccanismi tipici di una campagna elettorale, sul fatto che, se è vero che inevitabilmente mutano nel tempo le modalità e i mezzi per condurla, inalterati rimangono i moventi psicologici che possono stare alla base della ricerca strenua del consenso. Robert Redford è naturalmente il volto e l’anima di questo film, in candidato, che pur nella particolarità della sua posizione politica, incarna ogni candidato possibile, ovvero, l’uomo politico che nella contesa elettorale si vede costretto suo malgrado a dover cedere una parte più o meno ampia della sua autonoma capacità d’azione.

Bill McCay parte forte semplicemente perché non rinuncia ad essere sé stesso e a portare nell’esperienza elettorale intrapresa i valori in cui crede. Parla chiaro e non ha problemi a dire di un argomento che non si è fatto ancora un’idea precisa. Un modo schietto e diretto che lo fa apparire come un sincero ed interessante anticonformista. Ma la campagna elettorale impone di piacere anche a chi non è vicino per naturale adesione ideologica alle proprie posizioni, di procacciare voti anche nei campi vicini alla parte avversa. In (ogni) campagna elettorale, la politica diventa lo spazio dove si deve pretendere di governare il tutto e che su tutto bisogna ostentare conoscenza. Ecco allora mettersi in moto l’opera di maquillage dell’immagine del candidato, lo studio certosino sull’utilizzo ambiguo delle parole, l’arte retorica di dire e non dire. Perché, per ogni candidato, la regola principale è quella di non inimicarsi nessuno per partito preso. Bill McCay, pur rimanendo vicino allo spirito del suo avanzato programma elettorale, capisce presto che la forma vale più della sostanza, che più importante di quello che si dice è il come lo si dice, che più utile di far conoscere i contenuti del proprio indirizzo politico è saper gestire da equilibrista navigato i tempi televisivi. Con questo insieme di regole non scritte, più si va avanti e più un candidato è assimilabile a un prodotto che per essere venduto bene deve sottostare alle regole pubblicitarie imposte dal mercato. Il pregio di questo film sta proprio nel non presentarci il candidato McCay come un uomo politico che deroga dai suoi principi etici per garantirsi maggiori possibilità di successo. Scelta narrativa che, insieme ad indirizzarlo di più verso l’analisi sul fascino seducente esercitato dal potere, l’avrebbe probabilmente reso più spettacolare garantendogli magari maggiori fortune. Invece, “il candidato” di Micheal Ritchie rimane sostanzialmente sé stesso, mantenendo una posizione decisamente alternativa rispetto a quella dell’avversario repubblicano. I suoi cambiamenti sono impercettibili eppure importanti, frutto delle necessità indotte dai meccanismi elettorali che chiedono, innanzitutto, di corrispondere ai bisogni primari del cosiddetto “cittadino medio”. Occorre edulcorare affermazioni ed ammorbidire posizioni, dominare i mezzi di comunicazione e intonare la cravatta alla camicia. Perché è il risultato immediato quello conta, e giocando nel terreno imprevedibile della politica, ogni particolare sfuggito di mano rischia di risultare decisivo. Ragion per cui, più importante dell’indirizzo politico che s’intende intraprendere, è il modo in cui questo deve essere impacchettato per essere meglio messo in mostra.

Quanto scritto finora, sull’intenzione di Ritchie di fare un film, non sull’analisi del potere, ma sull’uomo fagocitato dai meccanismi tipici di una contesa elettorale, trova la sua conferma (oserei dire) solenne nella parte finale del film, dopo che Bill McCay  è riuscito inopinatamente a vincere le elezioni nel suo collegio californiano, quando dice con tono smarrito al suo più stretto collaboratore “e adesso che cosa facciamo”. In quelle parole è rinvenibile tutto il senso di smarrimento di un uomo di fronte a un sistema di cose che per mesi ha imposto di stringere mani, partecipare a cerimonie di prammatica, presenziare ogni evento mondano, andare in televisione, stare attento a come e quando parlare. Adesso che la campagna elettorale e finita insieme a tutto il suo corollario di falsità tollerate, adesso che si deve mettere un punto e a capo, dopo che si sono accettati tutti i compromessi “necessari” e svuotati di senso i contenuti più radicali del proprio indirizzo politico, è come se diventasse lecito chiedersi cosa si è diventati e (appunto) cosa bisogna fare : quello in cui si è sempre creduto o quello che si è detto in campagna elettorale che non ne rappresenta precisamente una copia conforme ? Sta in quelle parole il senso più profondo e significativo del film, fosse solo perché, esemplificando uno stato d’animo particolare, fa capire bene come una caratteristica portante di un sistema elettorale è quella di far vincere o perdere, non in ragione della cultura o dell’onestà politica di un candidato, ma in virtù di meccanismi oleati finalizzati alla costruzione “mitizzata” della sua immagine. Quanto basta per renderlo un film che merita attenzione.  

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