Regia di Pen-ek Ratanaruang vedi scheda film
Venezia 74 – Giornate degli autori.
Per raggiungere la felicità è necessario compiere un lungo percorso, ma per perdere la retta via può bastare anche un unico sbandamento, come riporre una fiducia senza limiti in un personaggio capace di manipolare la volontà altrui. Quando i tentacoli del controllo hanno completato la presa, anche eventuali tentativi di divincolarsi potrebbero generare risultati opposti alle intenzioni.
Viyada (Cherman Boonyasak), attrice di soap opera ingaggiata regolarmente per ruoli da cattiva, e Jerome (Stéphane Sednaoui), un benestante di origini francesi, formano una coppia minata dall’ossessione di quest’ultimo per una setta religiosa chiamata Buddhakaya e per il suo santone (Vithaya Pansringarm), che ha assunto una posizione di controllo.
Nel momento peggiore, quando sembra dover andare tutto a rotoli, Viyada incontra Guy Spencer (David Asavanond), un uomo misterioso che sembra poter risolvere il suo problema.
Il suo intervento provoca enormi scossoni nella vita della donna, che dovrà comunque agire in prima persona per liberarsi di un presente insostenibile.
Con Samui song, il regista thailandese Pen-ek Ratanaruang pennella un quadro dai contenuti forti, con un dramma onnipresente che sfocia spesso e volentieri nel thriller, senza scordare agganci al cinema di genere, ormai riconosciuto, anche a livello produttivo, a ogni latitudine.
Non per questo rinuncia a estetismi d’autore, come anticipano squarci di bianco e nero in apertura, accenna a una scomposizione temporale, lascia fuori campo dei pezzi sensibili, salvo poi mostrarne i risultati, e dilata i tempi dell’azione.
In un ordinamento di questo tipo, la parte più efferata da thriller nudo e crudo risalta ancora di più di quanto avrebbe potuto fare in condizioni ordinarie, ulteriormente rinvigorita da una lodevole messa in scena che tutela i riferimenti chiave, perfettamente consapevole di cosa porre sotto i riflettori dell’attenzione e in quali tempi farlo.
Questa propensione al thriller produce una tensione latente e più volte innervata al punto di annullare ogni forma di tranquillità, fino ad arrivare a un finale che, dopo cambi di scenario in funzione del passaggio di focus da Guy a Viyada, affonda la lama nella carne viva, cercando - con un discreto successo - lo spiazzamento, muovendosi tra realtà e finzione, lasciando la risposta definitiva sul destino della protagonista all’ultimo fotogramma, non prima di aver sottoposto l’attenzione a sollecitazioni intense.
All’interno di questo componimento, l’apporto degli interpreti principali è discreto, mentre Vithaya Pansringarm, che gli appassionati ricorderanno per la sua folgorante presenza in Solo Dio perdona, è più defilato ma riesce a evidenziare con pacatezza la viscida leadership del guru.
A conti fatti, Samui song presenta forse qualche iperbole inessenziale (per esempio, non manca la stimolazione del disgusto e qualche aggressione è protratta eccessivamente), ma uno stile definito garantisce un fascino attrattivo per i cinefili, mentre una trama dal forte impatto umano, che ripudia l’indulgenza e parla una lingua del dolore tutt’altro che rara, non acconsente un abbassamento della guardia anche in chi non è abituato a produzioni che provengono dall’altra parte del mondo.
Cinema a tutto tondo, con alcuni picchi di portata ragguardevole.
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