Regia di Yang Chao vedi scheda film
Crosscurrent è un film cinese del 2016, scritto e diretto da Yang Chao. L'opera è stata insignita, alla 66° Edizione del Festival di Berlino, dell'Orso d'argento per il miglior contributo artistico assegnato al taiwanese Mark Lee Ping Bin (pupillo di Hou Hsiao-hsien).
Sinossi: Gao Chun è un giovane capitano che ha ereditato dal padre una sgangherata nave da carico; lui ed il suo esiguo equipaggio percorrono quotidianamente ed incessantemente il fiume Yangtze, fermandosi in ogni porto dove incredibilmente troviamo sempre la stessa donna, la quale sembra aspettare proprio il capitano. È un fantasma o si tratta di un’allucinazione?
Crosscurrent è il terzo film diretto da Yang Chao, regista poco prolifico che ormai da oltre vent’anni si diletta nel realizzare enigmatici lungometraggi scanditi da un’estetica unica e personale; ad esempio nel 1997 con il corto Run Away vince il premio Cinefondation alla 54° Edizione del Festival di Cannes e si riconferma nuovamente vincitore in Costa Azzurra nel 2002 con il film Passages.
Yang Chao, bisogna dirlo, è un regista davvero difficile da inquadrare; lui si definisce un’intellettuale dedito ad un cinema d’essai assolutamente legato ad esperienze di vita vissuta, in aggiunta la sua idea di cinema è distaccata dagli autori della “sesta generazione” dunque non si prefigge di analizzare la sua società bensì esporre allo spettatore esperienze visive e culturali conturbanti e significative.
Crosscurrent rientra proprio in questa visione della settima arte; l’intento del regista è immergere il pubblico in un road-movie naturalistico dai contorni metafisici incredibilmente affascinante e corredato da particolari richiami alla cultura tradizionale cinese.
L’inizio in tal senso è sintomatico ed pervaso da un indice di cripticità considerevole: un uomo in piena notte sulla sponda del fiume Yangtze ci accinge ad acchiappare un pesce nero, l’azione è ripresa in campo lungo con la macchina da presa fissa accompagnata da una voce fuori campo che ci spiega come il soggetto in scena stia in realtà compiendo una sorta di rito funebre per onorare al meglio la vittima (si tratta di suo padre).
Scene simili è possibile ritrovarle in gran parte dell’opera, in alcuni casi scandite da una velata spiritualità buddista.
Intrigante il frangente in cui il protagonista si reca in una pagoda sperduta nel nulla con l’intento di ritrovare il suo amore perduto. Yang Chao ricorre ad un approccio elaborato e simbolico; impossibile non citare la lunga carrellata verticale che percorre interamente la struttura, alterata da una spasmodica macchia a mano atta a seguire il protagonista che scala la torre poichè (fuori campo diegetico) attratto dalla voce dell’amata.
Non mancheranno poi istanti trascendentali e poetici con figure femminili che compaiono e scompaiono improvvisamente nelle acque profonde del fiume Yangtze alternati a suggestivi pillow-shot dedicati a paesaggi mozzafiato.
Di tanto in tanto l’autore si avvale anche di enigmatiche scritte in sovraimpressione che incredibilmente richiamano non soltanto lo stato d’animo del protagonista (afflitto da un amore passato e dalla morte del padre) ma persino elementi interni all’inquadratura; ad esempio le scritte combaciano con le pagine del libro letto dal protagonista oppure i versi di una canzone alla radio riflettono i pensieri dell’autore.
Tornando a focalizzarci sullo Yangtze, l’opera si rivela essere un sorprendente e peculiare omaggio alla grandiosità del Fiume Azzurro; il regista, in una lunga intervista rilasciata a The Chinese Film Markek ha evidenziato di provare forte emozioni e sensazioni nell’attraversare questo vastissimo corso d’acqua al punto da dedicargli un film.
Il protagonista infatti oltrepassa letteralmente tutto il fiume, ed Yang Chao riprende con un certo fascino e stile tantissime località iconiche dalla Gola dello Qutang al Gold Sands River nella pianura dello Yunnan fino ad un villaggio di pescatori abbandonato ed avvolto da una vegetazione fittissima (dovrebbe trattarsi del villaggio di houtan Wan sull’isola di Gougi)
Il regista mette in scena questi luoghi idilliaci e quasi anacronistici se paragonati alle metropoli cinesi ultra-tecnologiche, ricorrendo ad un’anomala ma efficace commistione fra video-arte e documentario alla National Geographic.
Detto questo però il motore propulsore della pellicola è un’ambigua e torbida storia d’amore che valica i confini dello spazio e del tempo. Accattivante ed intriso di mistero la primissima apparizione della donna, spiata da lontano dal nostro marinaio; la ragazza cammina solitaria sulla banchina del porto immersa nella notte, il regista la riprende con una lenta carrellata laterale tuttavia la macchina da presa è posta al di là di una balaustra creando un cosiddetto effetto cornice, evidenziando così una sofferenza intrinseca della giovane ed Yang Chao ricorrerà più volte a questo approccio registico.
Eppure a conti fatti, la relazione fra i due risulta essere praticamente un MaGuffin e dunque rilegata ai margini della storia, un po’come i suoi protagonisti spesso baypassati dalla maestosità dell’ambientazione.
Film davvero insolito dove una narrazione convenzionale viene sostituita da un susseguirsi di immagini meravigliose riprese e fotografate splendidamente.
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