Regia di Giovanni Veronesi vedi scheda film
Non è un film per giovani. Ma nemmeno per vecchi, o per quelli di mezzo, per infanti, per fanatici delle t-shirt con sopra stampata l'icona del Che, per difensori di stereotipi e cliché e cartoline dal paradiso.
L'incipit didascalico di ritagli doc (da servizio televisivo “indignato”) in cui ragazze e ragazzi espatriati raccontano motivazioni e vita fuori dall'ingenerosa, apatica Italia, fornisce subitaneo toni seri/alti e (auto)investitura teorica: la “nobiltà” dell'operazione, insomma.
Ovvero, la questione (reale) dei 'cervelli (giovani) in fuga' – argomento tra i più in voga sui media – usata come grimaldello per spalancare i cancelli della consueta sarabanda tragicomica di cui si conoscono a memoria melodia, note, cambi di tempo, ritornello, consistenza (tra medietà e nullità), intenti, chiusa.
No, non è un'opera per fini intenditori né per spettatori casuali, assuefatti a un modus operandi così comune, usurato che la fase di rigetto è processo inevitabile nonché, allo stato dei fatti, irreversibile.
Disposti come manuale della commedia (dell'orrore) insegna, gli ingredienti filmici tutti – voce narrante, schematismi, personaggi fuori da ogni logica e realtà, storia zoppicante e diluita, scrittura ebbra di lacune e scorciatoie, riflessioni pretestuose, prive di profondità alcuna, musichette onnipresenti, estetica di maniera – danno vita (putrefatta) a un prodotto manicheo e superficiale, indifendibile.
Dall'inizio in terra romana alla fuga nei territori esotici cubani – la nascita dell'amicizia tra i due giovani uomini, l'elemento di disturbo femminile – la costante è la natura fasulla, artefatta delle cose: se la componente tragica è un sordido ricettacolo di ricattini facili facili (c'è quello a cui piace «picchiare la gente» ma è dentro «che è rotto», c'è quell'altra con trauma mortale e aneurisma che ne giustifica stramberie e “fascino”: e giù risate), condito di isterismi assortiti e confronti “drammatici” alla bisogna, quella brillante non arriva mai a segno, adagiata, com'è, su una rappresentazione statica e svogliata, e mai ispirata (la sola risata, forzatissima, giunge con una battuta volgare: ma, vista la situazione, si arriva a desiderarne altre).
Un film che è un mero susseguirsi di scenette e siparietti dallo spessore risibile, fatti certo per (tentare di) acchiappare il pubblico (non potevano mancare i balli sui ritmi latini, le riprese di scenari e figure esotiche, i Rubini e i Frassica come contorno grottesco-simpatico – pura macchiettistica –, il vecchio saggio fuori contesto che si rivela risolutivo), tristemente incapace di raccontare i giovani di cui ciancia come pure la – una qualsiasi – realtà (presunta) che li circonda.
Dialoghi e svolte narrative terribili, passo fiacco, argomentazioni insignificanti: su cotante basi, ovviamente, anche il terzetto di attori sui quali pesa il film, fallisce miseramente.
Se Scicchitano fa meno peggio degli altri due è solo perché replica il suo repertorio di bravo e simpatico ragazzo romano, mentre Anzaldo annega in un mare di mediocrità (e di cui si ricordano al massimo le nude chiappe) e Sara Serraiocco si produce in una performance che vorrebbe tanto risultare “naturale” invece è solo tremenda, imbarazzante.
Finale con giallo e inutilmente “poetico” (la crescita di uno dei protagonisti è testimoniata dalla faccia barbuta) e l'enfasi dei Negramaro che partono sui titoli di coda.
Micidiale.
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