Regia di Gilles Marchand vedi scheda film
Figliolo, un giorno tutto questo sarà tuo!...
Vorrei trovarne un motivo. Già. Serve interrogarsi su cos’è la ‘medietà cinematografica’ oggi? Certo, e servirebbe pure aggiungerci qualche altra vexata questio. Chi fa cosa e chi non fa nulla perché prodotti come questo “Dans la foret”, ordinariamente solcati da ciò che potremmo definire ‘un prodigioso apparire e sparire’, non trovano alcuno spazio; né di nicchia, né di distribuzione, né di discussione. In Ita(g)lia.
Film che potremmo mandare a memoria, stesi sui divani dei sabati sera ventosi e pieni di acquazzoni verdastri – lì fuori, nel mondo reale –, film che riuscirebbero a ricomporre l’anomalia del ‘tempo dis-perso’ in migliaia (chi, milioni!) di ore falciate e lasciate sognare dentro a miliardi (chi, universi!) di fotogrammi divorati e già digeriti – dimenticati –, nei nostri stomaci oculari.
Ho guardato questo lavoro della premiata ditta Marchand&Moll, il dopocena appresso all’aver rivisto, con sommo gaudio, “ Le locataire” di Polanski; se eviterò qualsiasi improvvido, degenerato e stolto paragone (su ‘cose’ totalmente diverse, per arte registica, per scrittura, per resa narrativa, per empietà e angelica perversione), mi faccio carico di avvicinare l’antipatico comparire del diable entre les deux oeuvres.
Un perforo dove passa – nelle righe di Topor all’interno di una selva di mattoneintonacomaltavetromarmo, in Moll in classico topos del vagare nel secolo-millennio di pianteacquefelcihumuscorvi – la suggestione. Ecco, e minchia se è poco!
Il Padre (non ha mai un nome, nel film), ha abbandonato la Madre da tempo. Perché, dice, l’amava troppo e lei non capiva l’origine di una sua perdizione nel presentimento, nel rifiutare il sonno (ed il sogno, dunque) per fissare il buio (del mondo, degli uomini) e vedere ‘oltre’. Insonnia che diventa amore per la malattia; con questo feroce fardello addosso, accompagna i due figli (Ben, il grande, e Tom, il piccolino) all’interno di una inestricabile foresta svedese e li porta a farsi amare-odiare (il ‘L-O-V-E-H-A-T-E’ sulle dita di Harry Powell, forse), fino al delimitare un nuovo punto di intersezione tra il suo ed il loro mondo. Un’area transizionale dove passerà il peso atomico dei loro corpi, dove la materia si indirizzerà verso spazi antitetici (la Morte, per il padre, la Vita per il resto della sua famiglia). Lo ‘spirito’ di questo script sta infatti più nelle scene notturne, dove si scruta l’abisso dell’informe, che in quelle regolate dal semicerchio solare. Buio come profezia. Anche Trelkovsky finì a fissare la notte, seduto davanti alla sua finestra spalancata. Lui vide i morti che lo ante e postcedevano.
Trelkovsky mi ritorna pure per similitudine, divergente. Lui prende le forme della Madre, che poi torna a guardare il Figlio sul letto d’ospedale (e l’urlo maternale, parallelo al pianto neonatale, nel ciclo diabolico dell’espiazione di una follia si crede possa far comparire la prole; così come il bimbo piange e compare il seno della poppata, e crede che sia l’urlo che fa comparire il mondo di cui ha bisogno per rigenerare il ciclo della vita). Tom, il Trelkovsky di questo film secondario (o ternario, fate voi, sparatemi pure con tutto l’armamentario che possedete), per far ricomparire la madre ha esigenza della psicopatia del padre. Ed il padre riceve da Tom, la chiave di soluzione del suo calvario finale. La spugna d’aceto. Il sudario.
Esiste, nella scrittura di questo copione, un veloce processo di separazione e di differenziazione. Della Madre (il mondo esterno) e del Padre (il mondo interno). Dall’essere fusi nel ruolo di coppia genitoriale (genitale), diventano soggetti separati da un duplice percorso; dall’illusione della ‘visione’ all’arrivo sulla sponda dell’esame di realtà (la chiatta che riporta il bambino nella società, lì dove lo attendono sorridente mamma e fratello), dall’onanismo d’eterno dell’uomo – l’odissea paterna nasce con la vista di un lago, semiologicamente lo scrutare primitivo d’una fenditura umida del reale – alla vulva tecnologica della donna – l’eneide materna parte con il taglio ipermeccanico di alcuni alberi, semanticamente la castrazione fallica di quanto fino ad allora visto –. Dall’infanzia all’adolescenza. Da Uno (Tom) a Tre(lkovsy). Bimbo-Padre-Madre.
Cosa dire, infine? Cosa dirvi per inoculare in voi la diffidenza, e contribuire alla messa al bando di questo piccolissimo archetipo di cinema ‘portentoso’? Se questo film scimmiotta all’inizio “Shining” (stephenking!), prende corpo gorillando “The Night of the Hunter” (davisgrubb!!) e finisce che oranga “The emerald forest” (rospopallenberg!!!), in verità non c’è un solo motivo per cui è e sarà sempre ‘pellicola’ ripudiata da critica e pubblico, destinata a stare sulle mensole di abbandonate, miserevoli casucce nei boschi. Dove non c’è progresso, luce no, né gas. Una sola tacca di campo telefonico ristora il dintorno, e che va e che viene. Di motivi ce ne sono ben tre. Avete capito quali, no?
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