Regia di Julia Ducournau vedi scheda film
La potenza di una messinscena coinvolgente e sicura, capace di mettere in fila diverse sequenze di grande effetto, è messa al servizio di un racconto che talvolta sfiora l'assurdo ed è complessivamente ben lontano dalla perfezione.
Justine è vegetariana, come sua sorella maggiore Alexia e come i genitori, che ad entrambe hanno imposto questa loro scelta da sempre, sottoponendole sin da piccole ad un regime alimentare austero e immutabile. Continuando a seguirne le orme anche sotto il profilo della formazione professionale, si iscrivono - con qualche fisiologico anno di differenza l'una dall'altra - alla stessa facoltà nella quale questi, ai tempi, si erano laureati: veterinaria.
Per l'introversa e sensibile Justine, l'approccio con il nuovo contesto è a dir poco traumatico: neanche il tempo di mettersi a cercare Alexia o anche solo di schiacciare il primo pisolino nel dormitorio che la ospita, ed un'orda di 'veterani' la tira con la forza dentro ad una festa dalla quale le è impossibile astenersi, seguita a ruota - nelle ore e nei giorni immediatamente successivi - da una serie di altrettanto inevitabili, nonché barbari, riti di iniziazione: tra questi, l'ingestione di un rene di coniglio crudo, ovvero la drastica rottura degli schemi rispettati da una vita, a cui cerca inizialmente di opporsi, cedendo però poi quando è la sorella stessa a mostrarle inequivocabilmente di aver già fatto anche lei quel passo.
Mentre il rapporto con quest'ultima si mostra instabile come il suo umore, ciò che progressivamente tende a sconvolgere Justine sono gli effetti sul lungo termine di quel gesto rivoluzionario: un istinto primordiale sembra essersi svegliato da un lungo torpore; e la carne inizia a chiamare altra carne, sempre più al sangue, e sempre più vicina.
«Cronenberg è colui che meglio ha saputo filmare l'aspetto psicanalitico della metamorfosi». Con questa dichiarazione d'amore per il maestro canadese, rilasciata in sede di presentazione unitamente alla sottolineatura di come la tematica della mutazione sia stata alla base anche delle due proprie opere precedenti (Junior e Mange, rispettivamente un cortometraggio ed un tv movie), la giovane regista e sceneggiatrice francese Julia Ducournau delimita da subito il campo, indicando con chiarezza il perimetro entro cui intende far muovere, almeno per ora, il proprio cinema. Se tutto ciò, di primo acchito, può far pensare a qualcosa di poco originale o derivativo, a spazzar via i dubbi interviene il film: un film, Raw (titolo originale, Grave), indubbiamente forte e girato con una personalità sorprendente per una esordiente sul grande schermo, che deve il proprio fascino al suo essere intimamente respingente, calato dall'inizio alla fine in un'atmosfera claustrofobica e disturbante, in grado di tirare in ballo il cannibalismo senza applicare scorciatoie voyeuristiche stucchevoli, e di inquietare con uomini che vorrebbero addentare altri uomini senza che di mezzo ci siano vampiri o morti viventi; profondamente calato nella realtà, Raw adotta il punto di vista della sua protagonista e, attraverso l'interpretazione fisica ed efficace di Garrance Marillier nel ruolo (nonché del determinante ausilio di uno score - di Jim Williams - e di una colonna sonora addizionale pertinenti), ne segue il drammatico percorso di formazione cercando di generare - e in massima parte riuscendoci - un'empatia viscerale e quasi 'imbarazzante'.
Purtuttavia, la potenza di una messinscena coinvolgente e sicura, capace di mettere in fila diverse sequenze di grande effetto (due su tutte: l'incipit, con la telecamera prevalentemente fissa su campo lungo che testimonia un omicidio stradale dalla dinamica tanto lineare quanto paradossale e folle, e, al centro della storia, quella in cui Justine scopre a spese della sorella quali siano i propri veri gusti culinari), è messa al servizio di un racconto che talvolta sfiora l'assurdo ed è complessivamente ben lontano dalla perfezione, alle cui smagliature non giova che i personaggi secondari siano in buona parte tagliati con l'accetta, e né tantomeno che per novanta minuti si faccia attenzione a mostrare senza sovra-spiegare granché, alimentando interpretazioni, ipotesi o metafore, per poi scegliere, proprio ad un passo dal traguardo, di risolvere tutto con uno spiegone insulso e non necessario, che fornisce forse il 'coup de théâtre', ma fatica a stare in piedi e, soprattutto, annulla in un colpo solo le suggestioni che quelle stesse imperfezioni avrebbero potuto favorire di fronte ad un finale meno didascalicamente definito.
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