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Noi siamo la marea

Regia di Sebastian Hilger vedi scheda film

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La recensione su Noi siamo la marea

di supadany
8 stelle

Tff 34 – Concorso 34.

We are the tide, tradotto Noi siamo la marea, invoglia e scuote fin dal titolo che rievoca un’esperienza condivisa, qualcosa di insondabile e misterioso.

Come spesso accade con le opere prime, ci sono diversi sbandamenti e viene richiesto di fidarsi (anche alla cieca), ma allo stesso tempo, il regista Sebastian Hilger osa parecchio e dimostra soprattutto di saper dare ampiezza a immagini e suoni.

Micha (Max Mauff) e Jana (Lana Cooper) sono due giovani scienziati, da tempo legati tra loro, che si dirigono in un paese costiero per risolvere un mistero cui nessuno ha mai saputo dare una spiegazione; quindici anni prima, la marea si è ritirata senza seguire il solito moto e nelle stesse ore tutti i bambini del villaggio sono scomparsi.

La gente del posto fa di tutto per farli desistere, ad eccezione dell’unica giovane ragazza presente; passo dopo passo, Micha si ritrova completamente assorbito da tutto ciò che circonda questo mistero.

 

scena

We Are the Tide (2016): scena

 

È possibile capire o calcolare qualsiasi cosa?

La risposta a un quesito assolutistico di questo tipo è piuttosto chiara ed ovviamente è negativa; per quanto ci possiamo impegnare, rimarranno sempre dei segreti irrisolti, dei coni d’ombra all’interno dei quali è impossibile addentrarsi.

Per (provare a) trovare delle risposte - tanto più a misteri situati oltre la soglia della normalità - occorre comunque correre dei rischi, lottare per promuovere le proprie idee e spingersi oltre quelle barriere imposte dalla conoscenza disponibile.

Partendo dalle considerazioni appena esposte, We are the tide dispone di un importante carico di fascino, che gli consente di andare oltre ai limiti, o manchevolezze, di una trama che, come il suo stesso protagonista, si addentra in territori nei quali mantenere la credibilità e fornire pieno appagamento è una missione quasi impossibile.

Un gran sostegno arriva dalle immagini; il sempiterno moto delle maree, con riflussi e deflussi da capogiro, scopre un deserto di sabbia bagnata, incredibilmente valorizzato da campi lunghi semplicemente mozzafiato, perfetti per sottolineare quanto sia piccolo l’uomo al cospetto dell’immensità della natura. Allo stesso tempo, il paese desolato, con i ruderi di un tempo, è a colori solo di fatto, svuotato dalla vivacità e felicità giovanile.

Allo sguardo, si accompagna un (forse) ancora più valido apporto sonoro; i rumori e i suoni sono sviluppati in più direzioni, creando un profondo senso di inquietudine, ma anche una sostenuta movimentazione dello stupore.

Questo contorno percettivo di altissima qualità, circonda l’approdo di due giovani estranei in una comunità segnata irrimediabilmente; inizialmente il loro contatto è simile a quello tra l’olio e l’acqua, ma oltre l’astio della prima ora, ci sono anche alcune difese che non vedono l’ora di vacillare.      

Con al seguito tecnicismi scientifici e una spiccata disillusione, il film si squarcia lentamente, apre sentieri, semina orme, arriva anche a stordire, richiamando il peso delle delusioni, che ci trascinano via, e ricordandoci che quasi sempre la vita è una strada a senso unico sulla quale non è prevista alcuna inversione di marcia.

In definitiva, l’opera di Sebastian Hilger possiede una capacità di seduzione simile al canto delle sirene, avvolgendo lo spettatore in un vortice di suoni, immagini e mistero per cui la piena razionalità non è la via della conoscenza (e dell’apprezzamento).

Pericolante e magnetico.

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