Regia di Emir Baigazin vedi scheda film
Desolazione. Una sensazione del corpo, uno stato dell'anima. La fase di una crescita, che trova la sua libertà in una crudele follia.
Il deserto dell’anima ha fame di un sogno sbagliato. È così che ci si perde. È così che nascono il peccato e la follia, e forse il male, in generale. Quattro ragazzi kazaki sperimentano la strada che attraversa il nulla, per fuggire verso orizzonti inesistenti. Si chiamano Zharas, Chick, Toad, Aslan, e vivono in mezzo alla steppa, in case che non sembrano tali, baracche senza un vero pavimento, soffitti bassi, tende al posto delle porte. E la luce che, tutte le sere, alla stessa ora, si spegne. Il governo toglie la corrente, per riscattare un’economia in rovina. In compenso, ci sono sempre le candele, e poi c’è tanta, tanta fantasia. Ci sono le passioni che guardano ad infinite possibilità, anche dove la miseria è una fedele compagna di viaggio. Un futuro da boxeur, un concorso di canto, fondere i metalli, studiare da dottore. Tuttavia, l’arte di arrangiarsi è una pratica che può risultare fatale, se non si è in grado di accettare i colpi del destino, se non si sopportano la vista della sofferenza, l’odore del fallimento, l’amarezza che fa sentire deboli. Quattro adolescenti provano a plasmare, nella sabbia, tra i i rottami, nel cuore del disagio, le forme insperate della ricchezza. Il senso della frustrazione sarà un’ebbrezza senza ritorno, di quelle che ti rapiscono fuori dal mondo, senza però darti nessuna salvezza. La devianza adolescenziale – nelle forme della psicosi e del crimine – può essere un’originale invenzione individuale del tutto funzionale all’ambiente, suggerita dalle sue espressioni che sembrano futili, e invece lasciano il segno, incidendo profondamente la superficie delle illusioni. Può bastare il riferimento ad un albero. O una piccola tentazione, un cattivo esempio a portata di mano. Il brutto accade quando non è il più il cuore, bensì la realtà, a fare da fonte ispiratrice. L’evasione parte male se prende l’avvio da un duro spuntone di roccia. L’angelo ferito del titolo è la vittima di un volo sfortunato, che all’inizio sembrava bellissimo, ma era nato male. Non a caso, questa storia vuole che quella disgraziata creatura sia la protagonista delle visioni drogate di un orfano disabile. Di qualcuno che non ragiona e non cammina, e deve dunque trovare altri modi per toccare la terra: un substrato insano, pericoloso, contorto, che, però, è tutto quello che c’è. In questo film l’errore è diluito in uno sconcerto dalla consistenza eterea, in un clima da sopravvissuti alla rivoluzione mancata, che ha cambiato tutto, promesso molto, mantenuto niente. Il dopo-URSS è un paesaggio sgombro e attonito, acceso di un bianco abbacinante. Dopo Harmony Lessons, Emir Baigazin torna sul tema della ribellione giovanile, ma questa volta il nemico è invisibile. Non ha più l’identità politica di un sistema ideologico, è solo il fantasma di un’utopia di fronte al crollo della quale nemmeno la disillusione ha retto. Neppure il verso alato del disincanto ha potuto opporre, al totale cataclisma della logica, una dignitosa resistenza. Il mondo si è ritrovato vergognosamente nudo. La fine di un inferno ha avuto lo stesso effetto della cacciata dal Paradiso. Anche il Dio negato ha precipitato dal cielo il suo Lucifero. Ma un suolo indifferente, arido e inospitale ne ha fermato la caduta, rendendo mortale ed imperfetta la sua dannazione.
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