Regia di Julien Duvivier vedi scheda film
E' l'unico "noir puro" (intreccio criminale + dinamiche poliziesche + caratterizzazione dell'antieroe marginale) della stagione del Realismo Poetico. La regia di Duvivier (spesso tacciato di abile tecnicismo innamorato dei suoi effetti) è semplicemente strepitosa: generosa ma non barocca, esotica ma non accattivante, dinamica ma non caotica. Gabin monumentale: la sua pacatezza noncurante che s'infiamma improvvisamente in collera incontenibile prefigura, pur rimanendo inimitabile, la rabbia compressa di Lino Ventura o la lapidaria tensione di Lee Marvin. "Pépé le Moko" è film epocale per almeno un miliardo di motivi: 1- l'ambientazione in una Casbah-patchwork che incolla con rudimentale sfacciataggine pezzi di Algeri, Marsiglia e location rigorosamente ricostruite in studio; 2- la sottile attrazione/repulsione che lega Pépé (Gabin) all'ispettore Slimane (Gridoux), l'attendismo del quale ha un acre retrogusto dostoevskiano; 3- la nostalgia per Parigi che s'incarna nella "femme lumière" Gaby (Balin); 4- la galleria di truands che circonda Pépé come un coro tragico incanaglito in feccia; 5- la lenta degenerazione della Casbah da luogo di libertà e impunità a carcere a cielo aperto; 6- il progressivo disfacimento fisico e psicologico di Pépé, che da dominatore dello spazio si rimpicciolisce a ometto soffocato dall'ossessione evasiva e da una passione intrisa di masochismo; 7- il virtuosismo delle riprese che fa di ogni sequenza un pezzo di bravura e di originalità (la presentazione iperframmentata della Casbah in apertura, l'esecuzione "alla pianola meccanica" dell'untuoso informatore Régis, le folli e surreali discese in città di Pépé, lo stupefacente carrello finale in avanti su Gaby); 8- la rappresentazione dei turisti francesi che visitano Algeri per vampirizzarla folkloristicamente e liquidarla con una frasetta impacchettante ("In ogni caso io mi sono molto divertita e tuttavia ho sempre trovato il sole di un triste.") 9- l'amicizia fraterna/filiale tra Pépé e il giovane Pierrot (Gilbert Gil, straordinariamente somigliante a Jean-Pierre Léaud) 10- lo splendido e doloroso ritratto di Inès (Noro), donna che tradisce per soverchio d'amore nei confronti di un uomo sfuggente come un'anguilla e prepotente come un tiranno. E, su tutto, una canzonetta di impudente solarità ("Que faut-il?") che "le Moko" (termine gergale che indica un uomo proveniente da Marsiglia) intona alla vigilia di un appuntamento galante con Gaby. Un film seminale, ça va de soi.
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