Regia di Julien Duvivier vedi scheda film
La Casbah (Qasba) è come un gigantesco castello medievale che domina la città di Algeri e guarda con malinconica rassegnazione il mare sottostante, non ci sono fossati e ponti levatoi, né porte o sentinelle ad impedire l’accesso al labirintico e umanamente variegato universo multiculturale.
La compattezza di questa cittadina indipendente garantisce la sicurezza a tutti coloro che per necessità cercano rifugio e accoglienza, perché la Casbah è un mondo che prospera con le sue regole, che vive secondo le sue leggi, è un insieme di componenti che ne fanno un corpo solidissimo, senza barriere ma ugualmente impenetrabile.
Pépé le Moko (Jean Gabin) sono ormai due anni che vive all’interno dell’invisibile fortino, protetto dai componenti della sua banda di fuorilegge e venerato dagli abitanti del posto che lo guardano con ammirazione e rispetto, bandito in fuga capace di sfidare le autorità parigine e di farla franca, imprendibile come gli eroi romantici di certi romanzi d’appendice.
Nella Casbah il gangster ha trovato rifugio, l’amore della bella zingara Inès (Line Loro) e la compiacenza dell’ispettore Slimane (Lucas Gridoux), che tuttavia non nasconde le sue intenzioni primarie, la cattura del gangster/amico arriverà nel momento più favorevole, Pépé le Moko rispetta l’uomo di legge ma non lo teme, così come non teme gli infiltrati della polizia parigina che giocano sporco, che tramano nell’ombra, uno come lui non teme più nulla ma sogna la libertà, sogna Parigi, sogna di poter andar via dalla Casbah che tanto gli ha dato ma altrettanto gli ha tolto, una prigione senza sbarre, un limite invalicabile oltre il quale non può andare senza essere arrestato.
L’arrivo dell’avventuriera Gaby (Mireille Balin) è come una terremoto, donna bellissima accompagnata ad un vecchio pieno di soldi, Pépé guarda prima i suoi gioielli ma è poi rapito dal suo sguardo ammaliante, la classica femme fatale alla quale non si può rinunciare, non solo per la sua avvenenza ma anche (soprattutto!) per quello che rappresenta, Parigi, la libertà, finalmente una possibilità di fuga.
Il bandito della Casbah (Pèpé le Moko) esce nel lontano 1937, senza dubbio uno dei capolavori del grande cinema francese preguerra, tratto da un romanzo poliziesco di Henri La Barthe uscito nel ‘31 viene adattato per lo schermo da Julienne Duvivier, che firma uno dei suoi film migliori (forse IL migliore), un opera che ancora oggi mantiene viva tutta la sua forza (melò)drammatica, oltre ad una dirompente carica espressiva, chiaramente generata dalla perizia tecnica di un regista che venendo dal muto conosceva l’arte di emozionare con la sola forza delle immagini.
Il film non si potrà forse inserire nel più classico genere noir ma è geneticamente precursore di tale filone cinematografico, nella drammatica vicenda di Pèpè le Moko sono ben presenti tutti gli elementi narrativi e figurativi che poi entreranno a far parte di uno standard consolidato e riconosciuto.
La storia di un bandito romantico, vittima di se stesso e della sua natura, un uomo nei cui occhi si legge il presagio di una sconfitta imminente, la storia di un fuorilegge in fuga da un mondo che lo protegge privandolo al contempo della libertà, un paradosso che l’ottima sceneggiatura rende alla perfezione (Henri Jeanson ai dialoghi, Le Barthe e lo stesso Duvivier al plot).
Ruolo fondamentale, personaggio tra i personaggi è la Casbah, clamorosamente ricreata in studio per un risultato a dir poco eccellente, l’iniziale sequenza ci presenta un protagonista a cui il regista infonde vitalità grazie ad una resa formale impeccabile e originale, gli stretti vicoli che si intersecano tra loro, i bazar dove si contratta e si vende di tutto, le case una attaccata all’altra a formare un unico corpo, i tetti naturali vie di fuga, infine la vita di figuranti di varie etnie che come formiche impazzite sembrano non fermarsi mai.
E poi ancora gli intrighi, i giochi di potere, i tradimenti, le trappole, gli infami che si vendono alla polizia, un universo narrativo che pullula di emozioni e di azione (repressa, contenuta, interiore), il film di Duvivier non è un noir ma al contempo è uno dei più importanti noir di sempre, un opera dove il peso di un dramma sentimentale fa da sfondo all’esplosione di passioni pure, disperazione, amori folli, rabbia e vendetta.
Jean Gabin dominatore assoluto, non ancora icona conclamata della cinematografia francese ma ben avviato a diventarlo, il personaggio ambiguo di Pèpè le Moko sarà solo il primo di una lunga lista di antieroi romantici e disperati, figure popolari che diventeranno un caposaldo del cosiddetto “realismo poetico francese”, trasformando Gabin in un indiscutibile portabandiera di opere indimenticabili come Alba tragica, Il porto delle nebbie, L’angelo del Male, La grande illusione.
Il bandito della Casbah illumina ancora oggi per la sua perfezione formale, per il fascino romantico e per una regia illuminata che oltre a non sentire il peso degli anni si pone come indiscusso punto di riferimento, impossibile dimenticare la sequenza dell’uccisione del traditore, la folle corsa di un ubriaco Gabin verso il mare inseguito dalla sua amata Inès, il finale cattivo come cattiva è la vita, quell’urlo disperato che nessuno può sentire, il piroscafo che lascia il porto di Algeri diretto a Parigi incurante del dramma umano.
Rifatto dagli americani nel ’38 con Un americana nella Casbah, dirige John Cronwell e nel ruolo di Gaby abbiamo un esordiente Hedy Lamarr, più famosa dalle nostre parti è forse la parodia del ‘49 firmata Carlo Ludovico Bragaglia Totò le Mokò, naturalmente mattatore assoluto il grande Totò.
Voto: 9
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