Regia di Joachim Lafosse vedi scheda film
Tff 34 – Festa Mobile.
Ancora una volta, si parla di amore ma Joachim Lafosse parte dalla sua fine - già in atto - per raccontare quello che arriva dopo, quando il sentimento esaurisce la sua propulsione e all’interno della coppia si sviluppano forze repulsive.
Dopo l’amore è un film tutto d’un pezzo, ostinato nel tratteggiare una linea di demarcazione sempre più spessa, senza cedere alle illusioni.
Dopo quindici anni di matrimonio, Marie (Berenice Bejo) e Boris (Cedric Kahn) non si sopportano più soprattutto la donna ha perso ogni forma di serenità.
Nascono sempre più problemi, concernenti anche la casa in cui vivono - comprata da lei, ma rimessa in sesto da lui - e due figlie piccole comunque da crescere; ci vorrà tempo, e tanta fatica, per trovare una soluzione idonea al bene comune.
Tutto ha una data di scadenza. Così come i fiori, dopo aver raggiunto il massimo splendore, sono destinati a sbiadire, quando la complicità lascia il campo agli attriti, tra lui e lei non funziona più niente, ogni azione, anche la più elementare, diventa pretesto per scatenare una lite. Diventa difficile anche trovare un qualsiasi accordo su come proseguire, il cammino è tortuoso e la prole ne subisce le conseguenze. Solo il tempo può lenire il livore e permettere di individuare una strada percorribile.
Con coerenza, Joachim Lafosse descrive un viaggio doloroso, segnato da un odio insediatosi laddove prima splendeva l’amore. La messa in scena è essenziale, principalmente costituita da un’abitazione luminosa che ricorda un passato sempre più remoto, sostituito da un presente d’acredine.
Inevitabilmente, è il conflitto all’interno della coppia a ergersi quale protagonista, con il diverbio tra i sessi, grazie a dialoghi che pongono l’accento su distanze sempre maggiori, con brevi aperture di complicità che non possono fare altre che evidenziare, una volta di più, quanto le colpe alloggino sempre nell’altra sponda.
Un tour de force per i due protagonisti; Berenice Bejo è quanto mai lontana dalla lucentezza che l’ha fatta scoprire in The artist, perennemente imbronciata, emblema di una rabbia covata nel tempo e in deflagrazione prolungata, mentre Cedric Kahn subisce, così come il suo personaggio, tenendo un angolo del ring in perenne affanno.
Le problematiche sono sentite, lo strazio trova almeno un paio di passaggi scardinanti, perimetralmente ricorda Una separazione ma privo di imbellettamenti, così come di vette artistiche, con un finale che non deraglia, esplicitando l’unica chiusura ammissibile, al netto di quelle che possono essere le impercettibili variazioni dell’esistenza.
Per Joachim Lafosse è un lavoro compiuto, fermamente ancorato alle relazioni umane - sempre più complicate e influenzate da tempi difficili che hanno portato alla rimozione del senso di sacrificio della generazione precedente - senza mai perdere di vista il nucleo narrativo, con figure centrali definite scrupolosamente e scorci di prossimità umana.
Pertinente, tra esigenze e acidità; le favole che riempiono il cuore alloggiano altrove.
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