Regia di Gareth Edwards vedi scheda film
L’universo di "Star wars" parte per la tangente, direzione Morte Nera. Rispetto alle puntate precedenti cambia tutto, con poca attenzione per i fan storici e un taglio più adulto, stile "war movie" intergalattico. Peccato solo che si arrivi al momento clou con il fiatone e che i difetti abbondino, tra i quali troppi personaggi sottodimensionati.
È finita l’era degli eventi e anche l’universo espanso di Star wars è ormai intorno a noi, un compagno di viaggio dalla cadenza annuale: guarda avanti, indietro, anche lateralmente e con Rogue one: A star wars story, rivolta come un calzino quei connotati di umile riconoscenza che solo un anno fa permeavano Il risveglio della forza. Di conseguenza, il risultato non può che essere qualcosa di diverso - come la firma di Gareth Edwards lasciava ampiamente presupporre - che comunque deve fare i conti con il marchio Disney, tra enormi possibilità (tecniche) e limitazioni, dalle quali si può intuire la genesi delle riprese aggiuntive, con l’aiuto in sceneggiatura di Tony Gilroy dopo che Chris Weitz aveva scritto tutto il resto.
L’impero galattico sta costruendo la Morte nera, una formidabile macchina distruttiva che Galen Erso (Mads Mikkelsen) sta definendo sotto il controllo dell’ambizioso ufficiale Orson Krennic (Ben Mendelsohn). In realtà, lo scienziato sta facendo in modo di lasciare un punto debole per favorirne la futura distruzione, mentre sua figlia Jyn Erso (Felicity Jones), abbandonata per non precluderne la libertà, è ricercata dai ribelli.
Proprio Jyn, una volta scoperta la verità, parteciperà a una missione con il capitano Cassian Andor (Diego Luna) e una squadra di uomini valorosi per sottrarre all’impero il progetto della Morte nera e identificare la falla da colpire.
Rogue one, seppur in modi, e risultati, differenti, ha sull’universo di Star wars l’impatto che ebbe a suo tempo Il prigioniero di Azakban sulla saga di Harry Potter dopo La camera dei segreti: propone un taglio netto con il passato, soprattutto quello recente, e procede per la sua rotta, che guida a un approdo che tutti ben conosciamo - l’inizio di Guerre Stellari - pur recuperando alcuni frammenti ormai insediatisi nella memoria, come Darth Vader (peraltro, non propriamente spremuto).
Gareth Edwards lascia quindi un porto sicuro per avventurarsi in territori che, purtroppo, non sempre regalano grandi soddisfazioni; non ha una buona immediatezza, gli serve almeno mezz’ora (abbondante) per carburare, e anche i tempi di reazione non sono sempre brillanti.
Trova comunque la sua fisionomia, senza lasciare spazio alla leggerezza, si sorride non più di cinque volte, puntando sull’elemento bellico, su alcune motivazioni insite nell’essere umano e su uno scenario che, tra pace e terrore, ribelli e tiranni, eroi e (presunti) traditori, con il tempo che scarseggia e pure un’incursione degli estremisti, assume toni più maturi, per così dire adulti, pur rimanendo sempre un giocattolo(ne).
Principalmente, è più ombratile in tutto, ma non possiede nemmeno la sufficiente accortezza per andare in profondità; ci riesce sicuramente con la protagonista Jyn, interpretata da una volonterosa Felicity Jones, una ribelle per le circostanze, giovane donna con gli attributi che diventa eroina per (ri)nobilitare il suo cognome e far riconoscere chi fosse realmente suo padre. Da qui, scaturiscono i significati più interessanti che portano a ricercare ciò che si vuole essere e quanto conti avere una causa in cui credere per arrivare a conseguire dei risultati.
Oltre a lei, c’è un discreto lavoro su Cassian Andor (Diego Luna non risplende di luce propria), mentre intorno a loro sembra che descrizioni e casting siano principalmente riconducibili alla volontà di ricreare un melting pot tale da soddisfare più pubblico possibile. Da qui, nasce un’abbondanza (smodata) di personaggi, razze e creature che di rado trovano completa auto definizione; così, Donnie Yen e Jiang Wen sono poco più che ornamenti (di extra lusso), con le arti marziali solo accennate (ed è un peccato), Riz Ahmed va poco oltre la caricatura, anche un po’ fuori luogo, mentre Mads Mikkelsen riempie i suoi (pochi) minuti e il naturalmente diabolico Ben Mendelsohn non può sfogarsi a pieno regime. Anche sul versante droidi, da sempre protagonisti aggiunti, il nuovo K-2SO si difende, ma la sfida con il passato rimane impari.
Alla fine, l’ancora di salvataggio arriva da un ultimo atto che regala un war movie intergalattico, probabilmente il più lungo, impegnativo e complesso dell’intera saga (circa quaranta minuti), con alcune aperture drammatiche che scardinano dogmi storici per la saga; anche gli eroi si giocano tutto, non hanno niente da perdere e l’idea del sacrificio può trovare compiutezza, una novità che in qualche modo fornisce a questa escursione un significato, procurando (alcune) forti emozioni.
In ogni caso, da una valvola di sfogo comunque importante, la Morte nera è a tutti gli effetti, un personaggio, e con il vantaggio, anche parzialmente colto, di essere autoconclusivo (quindi possono cadere delle teste), è stato sviluppato un campo d’azione in cui non si è creduto fino in fondo - il discorso sulle modifiche seguite da Tony Gilroy torna in auge – tecnicamente irreprensibile, anche gli scenari naturali scelti tra Islanda, Giordania e le Maldive sono superlativi, ma già di suo estremamente rischioso, che però potrebbe lasciare interdetti buona parte dei fan della prima ora, senza arrivare concretamente a conquistarne di nuovi.
Rimane un blockbuster di tutto rispetto, ma dal film ad alto budget più atteso del 2016 - credo segnerà comunque l’incasso worldwide maggiore, pure con discreto margine - siamo poco oltre il minimo sindacabile.
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