Regia di Benoît Jacquot vedi scheda film
Tratto dal breve Body-Art di Don DeLillo, le cui riflessioni sulla schizofrenia contemporanea hanno ispirato registi come David Cronenberg e Michael Hoffman, il nuovo film di Benoit Jacquot presentato a Venezia 73 è il racconto di una ricerca talmente sconfinata e sfiancante, seppur intima e privata, che non può che degenerare in una storia di fantasmi. Manipolando le linee guida del romanzo e annullando i già pochi appigli narrativi, Jacquot abbandona la linearità dopo i primi tre quarti d'ora, e nella seconda metà del film costruisce con una regia tenue e contenuta un deforme thriller a tratti al confine con l'horror, in cui è la minaccia all'identità il cuore pulsante e terroristico.
Sdoppiando già il titolo del film nell'incipit Jacquot lascia intendere che la pellicola virerà su territori incauti e inquietanti. La macchina da presa segue con apparente sobrietà prima le pulsioni di morte del regista Mathieu Amalric (i tragitti in moto sono suggestivi e ricordano quelli del Glazer di Under the Skin), poi le temerarie vicissitudini della performer Julia Roy. A confondere i piani dei due novelli amanti (Amalric e Roy), che si conoscono durante una delle performance ipnotiche di lei, è l'attrice feticcio del regista Amalric, nonché sua donna, Jeanne Balibar, costretta a veder scivolare via l'interesse del disturbato regista nei suoi confronti. La separazione dalla Balibar mette in crisi i piani artistici dell'uomo, che stava stendendo una nuova sceneggiatura su misura per l'attrice (e per il di lei corpo, oltre che per le sue capacità), e il fatto che nel suo cinema venga a mancare questo elemento fondativo lo porta a una chiusura totale, che agghiaccia i rapporti con la nuova arrivata Julie Roy. Come se, nel generare un'opera d'arte, lui riuscisse a sfogare le sue frustrazioni solo in presenza di un'attrice con cui poter accoppiarsi. Come se l'opera d'arte non esistesse senza l'esercizio della sessualità.
Jacquot non illustra le motivazioni teoriche del suo film, come quelle suddette, ma le lascia intendere indirettamente. E per un film del genere il non detto è sempre ciò che funziona meglio. Infatti non spiega mai che la Balibar non fa altro che recitare la sua parte anche nella vita vera, e che la Roy si dimena fra i suoi incubi e le sue paure come se si stesse esibendo. Il rapporto fra le due donne, più approfondito nel romanzo di DeLillo, qui è racchiuso in una sola evocativa sequenza, il funerale di lui in seguito a un (apparente) incidente che a metà film lo uccide. La Balibar racconta, di fronte ai convenuti alla veglia, dei suoi anni di vita con Amalric, e mentre parla la Roy fa squillare il cellulare del regista, disposto con buon anticipo nella camicia con la quale lui sta per essere sepolto. La Roy interrompe così la performance della Balibar, facendo venir fuori la poco ostentata vanità dell'attrice (che all'inizio del film dichiara ironicamente di non volersi guardare di nuovo, non appena viene proiettato un film di Amalric con lei protagonista, mentre lui decide di voler guardare l'inizio, con uno sguardo che ha indubbiamente del libidinoso).
Ma a Jacquot non interessa tanto il fatto che la Roy rubi la scena alla Balibar. Quello che gli interessa di più, e questo lo dimostra la seconda parte di film, è il fatto che la Roy sembra rubare la scena a sé stessa.
In un gioco di specchi e riflessi, di punti di vista e di oggetti di visione, una dinamica che in effetti deve qualcosa ad alcuni dei migliori film di Bergman, Jacquot intesse con un montaggio raffinatissimo un silenziosissimo dramma dell'ossessione. Più che pulsioni sessuali, motori nel film sempre inestinguibili per l'attuarsi di qualsiasi azione, a disturbare il sonno e la veglia della Roy sono le immagini, le sembianze fantasmatiche, di Amalric. Amalric diventa a tutti gli effetti l'oggetto della performance, in combutta continua con lei, e la sua immagine dall'esterno. Jacquot non vuole spiegare, ma fa vivere sugli occhi e sulla pelle dello spettatore la malinconia della perdita dell'identità, come di una qualunque cosa che ripetuta infinite volte finisce per perdere il suo senso. Come se l'essere umano fosse guidato dal solo impulso di riempire i vuoti (fisici ed emotivi), e non fosse in grado di affrontare la solitudine.
Come avviene nell'ultimo Cronenberg, è come se i personaggi, pur essendo lontani fra di loro e non in grado di comprendersi, condividessero un incoscio collettivo, in cui le misure e le inibizioni hanno perso posizione e ragion d'essere. E infatti le pulsioni di morte di Amalric si estendono e vanno a lambire i contorni irregolari della personalità della Roy, fino a farla quasi soccombere.
A' Jamais è un film cui bisogna prestare una certa attenzione, non tanto perché complicato da salti narrativi avanti e indietro che a tratti paiono piuttosto arrugginiti e fini a se stessi, ma perché è uno dei film più esperienzali del regista, una di quelle pellicole in cui la confusione e l'inquietudine (nella scissione allucinogena di immagini raggelate e musiche vivaci ed hitchcockiane) sono più sentimenti da sentire, che non da capire. Ed è per questo un film indubbiamente coraggioso e degno di lode.
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