Regia di Terence Davies vedi scheda film
“Conformarsi sempre, ma in gran segreto disobbedire”. È uno dei consigli che Emily Dickinson riceve nel corso di A Quiet Passion, il biobic a lei dedicato diretto da Terence Davies, ma è anche la filosofia a cui da sempre aderisce il cinema del veterano regista inglese, che sembra rispettare i canoni più classici mentre rovescia in maniera quasi invisibile ogni regola del genere nel quale opera. Non fa eccezione il suo nuovo lavoro, che si serve di una messa in scena educata ed impeccabile per scardinare ogni paradigma del cinema biografico e dei “period dramas”. Se il cinema di Davies è soprattutto poesia per immagini, che trova la sua forza nella rarefazione e nel modo unico in cui le diverse scene vengono associate fra loro, è chiaro che il suo primo film dichiaratamente incentrato sulla poesia non poteva seguire in nessun modo le formule ampiamente collaudate del biopic, ma una narrazione che elimina quasi del tutto gli avvenimenti cardine dalla vita della scrittrice (quelli su cui generalmente indugiano questo tipo di film) e si concentra sulle interazioni fra i personaggi apparentemente meno significative eppure emotivamente rilevanti.
Come nel precedente A Sunset Song, in cui la voce narrante assumeva un ruolo fondamentale nel commentare le immagini, anche in A Quiet Passion il cineasta britannico riesce a servirsi dello strumento cinematografico più didascalico di tutti (il voice over) per sfruttarlo invece nella maniera meno usuale possibile, senza svelare mai in maniera esplicita il nesso che vi é fra ciò che vediamo e ciò che ascoltiamo. È un cinema che prosegue per suggestioni e non per snodi narrativi, che mostra la sempre più angosciante solitudine della propria protagonista (in parte imposta ed in parte dovuta ad un destino che si é costretti ad accogliere come viene) nascondendo quasi sempre allo spettatore gli eventi più importanti (la morte di un parente, l’abbandono di un amico) ed inquadrandoli solo nel momento in cui questi sono già accaduti, come se fossimo in un film di Michael Haneke.
Me è anche chiaro che un film che narra la storia di una poetessa che ha vissuto ogni giorno della sua vita chiusa fra le mura della sua abitazione, traendo proprio da quella reclusione la forza per affermarsi come una delle più importanti voci del suo secolo, non possa prescindere dalla minuziosa descrizione di quegli ambienti e di quella casa. Gli angoli di inclinazione che la luce segue entrando dalle finestre ed attraversando le tende ricamate, come i diversi modi in cui questa si posa sui mobili e sugli ornamenti della casa, ci suggeriscono significati che vanno al di là di quelli facilmente decodificabili seguendo la storia. Se di Emily Dickinson ci è giunta una sola foto ufficiale, Davies ripropone nel film quello storico scatto proprio per evidenziare la forza iconica del suo personaggio. È nella scelta di farsi raffigurare seduta ad un tavolo con un libro chiuso accanto che emerge chiara la vera indole della protagonista: non una folle eremita, ma una donna consapevole del proprio ruolo e di come la sua persona dovesse essere vista da occhi esterni. Terence Davies non cerca di “attualizzare” la figura della sua protagonista (nonostante i comportamenti proto-femministi della Dickinson renderebbero facile una operazione del genere) ma come nelle precedenti opere sceglie di “sospendere” la sua storia nel tempo, attraverso un utilizzo ispirato della messa in scena e della colonna sonora (richiamando il suo capolavoro Distant Voices, Still Lives, il canto lirico accompagna diverse sequenze e conferisce al film una musicalità che permane anche quando la musica si dissolve).
Terence Davies si conferma un cineasta particolarmente legato al passato (storico e cinematografico) ed allo stesso tempo uno dei registi più moderni in circolazione, in grado di sperimentare anche quando stretto fra le maglie di un genere che non permette ampi spazi di manovra. Così lo straordinario uso del morphing fra diversi attori per mostrare il passaggio del tempo sui loro volti (una tecnica che usa nella sequenza in cui i personaggi si mettono in posa per una fotografia, ovvero nel momento in cui idealmente il tempo dovrebbe invece bloccarsi) dimostra una inventiva che mira a cercare attimi di pura astrazione cinematografica anche nelle storie più concrete. Solo un regista come lui poteva quindi essere in grado di adottare una narrazione dai tempi estremamente dilatati ed usarla per travolgere chi guarda con una ondata soverchiante di drammi (grandi e piccoli) che investono la protagonista ma senza fare clamore. Alla fine, anche la tragedia che emerge dalla contraddittoria esistenza di Emily Dickinson è “silenziosa” proprio come la sua passione.
Recensione pubblicata originariamente su STRANGER THAN CINEMA
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