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War Machine

Regia di David Michôd vedi scheda film

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alan smithee

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La recensione su War Machine

di alan smithee
6 stelle

L’arte della guerra, e l’incapacità di vivere una vita privata quando questa sembra non avere proprio più alcuna ragione di esistere.

Il valoroso, affidabile ed impegnatissimo generale Stanley McChrystal è impegnato in missione in Afghanistan come capo delle squadre statunitensi, accorse in massa in Medioriente per fronteggiare la minaccia anti occidentale promossa dalle sanguinose iniziative talebane.

L’uomo, integerrimo, razionale nella sua missione strategica sino alla maniacalità, se non proprio all’ottusità, completamente infervorato nel suo ruolo tanto da aver dimenticato da tempo quello di marito e padre, non bada ad orari, non cerca alcun tipo di confort, si immedesima nel ruolo di condottiero spartano e pratico teso al completamento della sua missione, che quando, interrogato dagli organi di stampa (una esilarante ma anche pungente Tilda Swinton) sulla effettiva necessità di una presenza militare (costosa, impegnativa, rischiosa di compromettere equilibri già difficili da garantire tra le etnie differenti e conviventi nella zona)  in quei territori caldi e travagliati, si assicura gaffes e autogol senza pietà, dimostrando un autolesionismo che sfocia nella involontaria comicità.

Ed il regista australiano valido e talentuoso David Michod, che ci ha quasi esaltato col suo folgorante esordio western-pulp di Animal Kingdom nel 2010, e ha dimostrato di essere un regista tosto col tetro, fosco ed apocalittico The Rover, ora cambia completamente genere buttandosi a capofitto sulla satira più irriverente, goliardica, pungente diretta contro tutto l’apparato militare americano (ma l’affronto riguarda l’aspetto marziale nella sua globalità). sulla goffaggine e sulla rozzezza di certe “menti” militari obnubilate dal desiderio di conquista o di combattimento anche laddove non esistono davvero più le condizioni per continuare un conflitto, né sussistono più le ragioni di uno sperpero immane di fondi, destinabili più coerentemente al riequilibrio dei rapporti di pace e alla soluzione di problematiche pratiche legate alla sopravvivenza e alla messa a punto di condizioni di rinascita di una nazione, nel rispetto di diritti civili inalienabili.

Brad Pitt, che figura anche nella veste di produttore esecutivo di un progetto nato sotto l’egida di Netflix, pare davvero motivato: il suo volto perennemente deformato da un’espressione alla Braccio di Ferro è ridicolo quanto basta per restare coerente con lo stile che il regista ha adottato per la narrazione dei fatti.

Certo la satira Altmaniana sulla guerra, o ancor più quella kubrikiana, volano a quote improponibili, nemmeno visibili ad occhio nudo dal livello comunque più che sufficiente di questo pungente simpatico film.

Nel ruolo della timida, dolce e remissiva moglie del famoso militare, ritroviamo l’amabile Meg Tilly, in un ruolo sacrificale dell’unica moglie che avrebbe potuto accettare di buon grado, ostentando una tenue rassegnata soddisfazione, una vita coniugale inesistente (circa trenta giorni insieme negli ultimi otto anni di vita coniugale). E Brad Pitt è tenerissimo nei panni del marito goffo, impreparato e completamente incapace di ricoprire un ruolo naturale come dovrebbe essere quello di marito e amante.

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