Regia di Tom Ford vedi scheda film
Non ingannino quelle improvvise e disturbanti esplosioni di violenza (che pure Tom Ford cerca di stilizzare, rendere visivamente tollerabili, conferendo loro la patente di parentesi). Animali notturni è film di esasperato ed esasperante romanticismo, un breve compendio sull’amore e sulla morte dell’amore e delle cose (persone, pensieri, azioni) che gli girano intorno. È un’opera sentimentale come forse, negli ultimi tempi, solo Ford riesce a congegnare e strutturare con tale dovizia di sottotesti, di luoghi che diventano protagonisti e non meri fondali, di ironia dolente che va a braccetto con la malinconia. È il reportage di un molteplice e multicolore disfacimento (a cominciare dai corpi nudi dell’inizio, portato e rappresentazione di un’arte moderna anche essa destinata, come e più che nel più recente The Square, all’oblio, alla sostanziale inutilità) che passa per la vendetta (una vendetta forse necessaria e non per questo meno terribile e che aleggia ovunque, dal centrale manoscritto che evoca fantasmi e trasforma l’interazione tra passato, presente e futuro in una somma algebrica di fattori uguali e contrari al quadro - Revenge - di cui non si ricorda l’origine, né il senso che andrà tuttavia a dipanarsi con calma, senza fretta), per l’angoscia degli insonni (le notti senza sonno sono il teatro rissoso e caotico dei ricordi e di quello spietato grimaldello letterario che li riporta alla luce, li muta di segno e senso, li ricopre di patina dolciastra e spietatamente melensa), per l’impossibilità di trovare una finale soluzione a quella equazione ormai non riconducibile al territorio del possibile.
Uccidere l’oggetto del proprio amore, e farlo metaforicamente, è, con ogni evidenza, ipotesi ancor più terribile (ovvero tremendamente efficace), garantendosi tale atto di estremo affrancamento il beneficio della diluizione temporale. La vendetta è un romanzo che va servito freddo, la vendetta è un’ipotesi di autobiografia con tutti i personaggi e le storie al punto giusto ed al momento giusto (ma anche sbagliato). È uno stendere parole sul foglio vergine di un talento mai riconosciuto (“pensavo che quanto ho scritto piacesse alla donna che amo”, frase che è un’operazione di disvelamento di senso e insieme un granitico epitaffio), il pigiare i tasti giusti, l’instillare in chi legge i venefici fumi del poteva essere, doveva essere, il porlo di fronte ad uno specchio che ormai rimanda un’immagine che il tempo (le cose, gli atti, le scelte, le piccole e grandi viltà) ha reso inconoscibile (il passato non torna e se torna lo fa sotto spoglie impreviste, maledettamente inconsuete).
Animali notturni è, naturalmente, film di regia: avvolgente, soffusa, elegante, calma e caotica, capace di cavalcare le onde dei differenti piani narrativi. Film di parola scritta che si fa immagine, si costruisce come alambicco di vita/sceneggiatura e di sceneggiatura come vita. Ma è anche, forse soprattutto, film di attori e personaggi, ognuno portatore della sua quota parte di amore e morte. Michael Shannon e la disillusione dell’antieroe pronto a tutto pur di affermare la Giustizia e vincere così la resistenza del poco tempo che è ancora concesso (parabola esistenziale che curiosamente un po’ ricorda quella del personaggio di Woody Harrelson in Tre manifesti a Ebbing, Missouri); Jake Gyllenhaal il debole; o meglio: colui che era visto come tale e che invece, al momento giusto, saprà trarre dalla propria scorta di idee e azioni una forza ed un coraggio che darà morte e morte gli darà (vertigine: il personaggio del romanzo è il suo autore, la cui donna lo ha lasciato per manifesta debolezza. Quello stesso autore/personaggio che - Revenge - organizzerà la morte dell’amore, del suo amore; ma la morte di quell’amore non potrà che condurlo, fiction o no, alla fine). E Amy Adams, dulcis in fundo (meravigliosa, ma chi conosce il sottoscritto sa che nutre per la suddetta una sorta di irrazionale venerazione). Amy Adams ed i suoi sorrisi che non si aprono mai abbastanza; Amy Adams e l’arte che non può contenere la vita, e nemmeno decifrarla, ricondurla ad ordine (fino a che non arriva un manoscritto, letteratura, arte, che molto decritta ma anche aggiunge caos a caos). Amy Adams che, in una delle scene finali più stupendamente angosciose degli ultimi anni, aspetta e guarda avanti, si guarda intorno. Ed il suo sguardo, che porta tutto il peso del tempo e della sua irreplicabilità, contiene ogni singola sfumatura della nostalgia delle cose possibili (che potevano essere) e di quelle che non saranno più.
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