Regia di Ewan McGregor vedi scheda film
Difficile portare sul grande schermo un autore complesso (dicono i ben informati) come Philip Roth (che al cinema aveva già "regalato" Lezioni d'amore, La macchia umana e Lamento di Portnoy), tanto più se sei alle prime armi con la macchina da presa. Ewan McGregor, attore britannico con molti successi alle spalle e una disposizione di fondo per copioni mediocri (The eye, Angeli & Demoni), si è cimentato nell'impresa dimostrando di padroneggiare i rudimenti della regia ma lasciandosi scappare di mano il tessuto del racconto. Che è questo: siamo nel New Jersey, negli anni Sessanta. Seymour Levov (McGregor), chiamato da tutti "lo svedese", e Dawn (Connelly) sono felicemente sposati nonostante le resistenze del padre di lui (Riegert), che vorrebbe a tutti i costi per suo figlio una donna ebrea. I guai e la discesa negli inferi cominciano con la crescita della loro unica figlia, una ragazzina balbuziente e petulante per sopportare la quale ci vuole la pazienza di Giobbe. Le cose precipitano quando la ragazza, ormai sedicenne (Fanning), sparisce da casa ed entra in clandestinità dopo aver effettuato alcuni attentati dinamitardi come fiancheggiatrice delle Pantere Nere. Sua madre, che mal la sopportava, tira un respiro di sollievo. Suo padre non si dà per vinto.
I fedelissimi di Roth avranno pane per i loro denti per esercitarsi nell'esegesi del loro beniamino, che con Pastorale americana si aggiudicò il Pulitzer per la letteratura nel 1998. Saranno probabilmente meno contenti del fatto che ciò che esce dal film di McGregor è un'opera che sembra una caricatura tanto del tramonto del sogno americano, segnato dall'inasprirsi del conflitto generazionale, quanto di quell'importante stagione dei diritti civili durante la quale non mancarono azzardi e conflitti. Un'opera per di più sciatta, montata approssimativamente e con un pessimo lavoro condotto in fase di trucco. Altro che certe donne che stanno benissimo anche senza. Vero Jennifer Connelly?
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