Regia di Ewan McGregor vedi scheda film
Al debutto in regia, l’attore azzarda una difficilissima trasposizione dalla monumentale opera dello scrittore Philip Roth, sfrondandone parecchie pagine alla ricerca di una compattezza, seppur ridotta, in grado di mantenere lo spirito che anima l’omonimo romanzo. Ma l’esito lascia perplessi. Non perché il film sia brutto in sé, quanto piuttosto per la sensazione di già visto. L’archetipico ritratto della perfetta famiglia americana, la cui facciata di felicità nasconde crepe di inquietudine, viene (ri)proposto con continua regolarità, sia al cinema che in tv. Quello che manca in questo adattamento è la rappresentazione di una consapevolezza veramente dolorosa dell’esistenza, che abbracci pienamente anche una dimensione religiosa di rovesciamento.
Il protagonista di questa parabola umana, Lo Svedese, è colmo di ogni qualità fisica e morale, come se fosse benedetto da una grazia inesauribile: il successo è la naturale meta a cui arriva senza sforzo (non solo in ambito sportivo). Egli ottiene sempre tutto ciò che vuole, basta solo desiderarlo perché esso non tardi a giungere. Questo aspetto di “beatitudine umana” di cui gode il personaggio viene naturalmente riassunto per esigenze di copione: ma forse sarebbe stato opportuno soffermarvisi di più, proprio per sottolineare il contrasto nella seconda parte del film.
Al culmine della piena realizzazione umana e professionale, la buona sorte (Dio? Il Caso? Il Destino?) presenta il conto con salatissimi interessi: l’uomo perfetto, marito e padre esemplare (almeno così era sempre sembrato agli occhi di tutti, compreso sé stesso), pagherà il prezzo di questa sovrabbondante felicità nell’adorata figlia balbuziente e ribelle, in un’ottica di espiazione veterotestamentaria che ricorda anche la Tyche della tragedia greca. La ragazza, in polemica con il modello di società americana inculcatole, di cui accusa con veemenza entrambi i genitori, sceglie il disprezzo verso di loro, incamminandosi sulla strada per l’inferno, che la porterà a vivere un’esistenza di delitto e castigo.
Il potente materiale narrativo a disposizione non trova dunque una messa in quadro all’altezza della prosa pregnante di Roth, sia per una sceneggiatura poco stratificata che per la condizione esordiente del regista, deciso a misurarsi con un testo così complesso, volendone anche interpretare il personaggio principale – se il film fosse stato girato quindici anni fa, forse Patrick Swayze sarebbe stato una buona scelta.
Da apprezzare l’interpretazione di Dakota Fanning, nel non facile ruolo di una giovane donna in preda a “colpa e vergogna de l’umane voglie”, da scontare nella rinuncia totale del mondo. Come Jacopone da Todi ma senza più i suoi accessi d’ira.
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta