Regia di Ewan McGregor vedi scheda film
NEI CINEMA DALL'OTTOBRE 2016
VISTO SU PRIME VIDEO NEL NOVEMBRE 2022
Era stato definito “film evento dell’anno”, probabilmente perché tratto dal romanzo premio Pulitzer dello scrittore Philip Roth (1997), prima parte della cosiddetta Trilogia di Zuckerman, composta anche da Ho sposato un comunista (1998) e da La macchia umana (2000). Prima e ultima regia – fino a questo momento – dell’ottimo attore scozzese Ewan McGregor (reso eterno dal personaggio di Obi-Wan Kenobi nella infinita saga di Star Wars), l’opera probabilmente paga lo scotto di questo esordio alle prese con un testo complesso, letteralmente osannato dalla critica e dai lettori. Perché American Pastoral pellicola, non riesce neppure lontanamente a restituire la drammaticità dell’arco di vita raccontato nella novella di Roth e, in particolare, non lo fa con la stessa capacità di alleggerire quando serve l’impianto angosciante della vicenda.
È la storia della sconfitta della famiglia cosiddetta tradizionale, che in particolar modo negli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso negli Usa visse il suo momento di illusorio successo, prima che gli scheletri celati negli armadi di tante case ‘perbene’ sgusciassero fuori mostrando al mondo i danni provocati dalla grande ipocrisia conformistica. È anche la storia di un amore paterno – ancor più di quello materno - impossibile, per una figlia che, con la balbuzie, mostra sin dai primi anni di vita un disagio ingestibile al cospetto dei rigidi schemi genitoriali e in particolare alla determinazione della madre nel volerli imporre anche alla ragazzina, senza alcuna predisposizione al confronto e senza la dovuta empatia. Una madre impreparata al ruolo di genitore e da subito impacciata e sconfitta. È la storia, anche, di un’America del nord che, ancora spossata nel morale, più che altro, dal decisivo e probante impegno della seconda guerra mondiale, non riesce a interpretare le aspettative della società che proprio dal devastante conflitto era stata foggiata.
La sfrondata e lacunosa sceneggiatura di John Romano, produttore televisivo americano con pochissima esperienza nella produzione cinematografica, si focalizza in particolare sulla deriva prima di disobbedienza, poi terroristica e infine di latitanza al limite dell’accattonaggio più psicotico di Merry Levov, adorata figlia del protagonista, Seymour detto lo ‘Svedese’, uomo con un passato da ammirato asso dello sport e un presente da industriale di successo. Nei due ruoli chiave del film troviamo una sin troppo ingrugnata e mono-espressiva Dakota Fanning (l'anno prossimo la si vedrà nella parte principale del film di guerra The Nightingale) che sembra aver perso quella naturalezza che aveva fatto di lei una delle ultime pluripremiate bimbe prodigio del cinema mondiale.
Lo stesso McGregor, che per sé riserva il ruolo del protagonista, resta imprigionato in una recitazione sempre sottotono, con nessuna battuta di particolare brillantezza, insomma fuori da un personaggio che meritava ben altra strutturazione filmica. Penalizzata dalla pochezza dello script anche Jennifer Connelly (premio Oscar 2002 per il ruolo in A Beautiful Mind e vista di recente in Top Gun: Maverick), personaggio colpevolmente marginalizzato rispetto ad alcuni momenti importanti del racconto in immagini, seppure l’attrice di Cairo (New York) alla fine risulta la più incisiva per slancio e credibilità. Poco più di un cameo per il sempre gradevole ed elegante David Strathairn (nel cast anche del bellissimo Nomadland, 2020), nei panni di Nathan Zuckerman, alter ego di Roth in questo capitolo dell’omonima trilogia citata in principio di commento.
Tuttavia, nonostante le pecche evidenziate, la pellicola non può essere liquidata come un semplice flop. I temi affrontati sono di massimo impegno e va concesso al regista di aver avuto coraggio vista, come già detto, la nobile derivazione del canovaccio su cui ha deciso di lavorare. Visione consigliata, quindi, perché di certo utile a prendere in esame tematiche che hanno plasmato la storia del Novecento e, di conseguenza, gettato le basi per ciò che siamo noi oggi. Voto 6,8.
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