Regia di Woody Allen vedi scheda film
45° film di Allen. Ormai, quando vedo scorrere i sobri titoli di testa su sfondo nero accompagnati dall’immancabile musica jazz, mi sento come se ritrovassi un vecchio amico un po’ fissato con le sue manie: so già in anticipo di cosa parlerà, ma mi piace stare ad ascoltarlo. Solita storia (“come diventare ciò che non si voleva mai essere senza soffrire più di tanto”, secondo l’efficace sintesi di Giona A. Nazzaro), soliti personaggi, soliti ambienti, solite situazioni: ancora una famiglia ebraica piccolo borghese, ancora i mitici anni ’30, ancora il mondo del cinema con le sue illusioni dorate, ancora l’antitesi fra la calda New York e la fredda Los Angeles. Jesse Eisenberg ha la faccia giusta, la fotografia è suggestiva, il finale è malinconico ma non tormentato: difficile aggiungere altro. Bisogna accettare serenamente il fatto che Allen ha esaurito le cose da dire, ma continua a dirle piuttosto bene: forse, se volesse stupirci davvero, l’unica possibilità che gli resta sarebbe convertirsi al cristianesimo come fa il personaggio del gangster.
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