Regia di Woody Allen vedi scheda film
Diciamoci la verità (che in quanto punto di vista è sempre arbitraria): le due vere star di Café Society sono, ovviamente, Woody Allen e Vittorio Storaro. Partiamo dal primo: tutto il film è una civetteria del grande autore. Jesse Eisenberg si muove e parla seguendo il canone alleniano, è una versione contemporanea del giovane ebreo nevrotico e naturalmente funziona perché, se è vero che il regista lo guida ispirandosi ad un modello autoriferito, è altrettanto vero che l’attore è consapevole del potenziale intelligentemente alleniano della sua recitazione. Lo si percepisce nella scena con la prostituta, con quella buffa tensione impacciata e un po’ sprezzante che riecheggia un qualunque gag di Allen, ma anche nei momenti romantici che annacquano il melodramma in potenza nella tenera comicità dell’innamoramento. La stessa Kristin Stewart è un’altra variante dell’ideale femminile dell’autore: una ragazza quasi donna malinconica e fregata dalla vita, talvolta algida ma comunque pienamente funzionale al discorso amoroso. E certamente i divertenti ritratti del coro e le battute riciclate sull’ebraismo senza aldilà: tutto è coerente ad un mondo che s’alimenta, spesso felicemente, di se stesso.
Storaro, invece, è una new entry in questo mondo e Café Society pare essere nato per avere la sua luce. Se da almeno tre lustri il grande cinematographer non aveva aggiunto pressoché nulla alla sua preziosa estetica pittorica un po’ ancien regime, qui riesce a lasciare il segno per l’evidenza della finzione insita al film stesso. Lavorando sull’impersonalità perfetta del digitale, Storaro ribalta il concetto proponendo un lavoro creativo, personale, sontuoso: le fonti di luci diegetiche sono ovunque (da notare le lampade accese nel salotto in cui filtra visibilmente anche la luce del sole o le candele che carezzano le ombre dei corpi dopo l’interruzione della corrente elettrica), intermittenti (i primi piani elargiti alla Stewart sembrano provenire da un film della Hollywood classica per la capacità romantica di plasmare il volto prima radioso poi fosco), spettacolari (il meraviglioso tramonto su New York, il dialogo tra Eisenberg e Carrell nel giardino della villa).
Café Society non è il capolavoro dell’autore, è anzi una trita e talora monotona rievocazione dell’età del jazz ad uso e consumo del nuovo pubblico alleniano che va in brodo di giuggiole di fronte al vintage e allo swing. Ma è anche il film, caldo e spietato, sull’inganno del cinema (altro tema caro) ed è proprio qui che l’armonia tra Allen e Storaro trova l’elemento comune: nella coscienza del tramonto. Esaltato dalla possibilità di individuare la malinconia che sottende il crepuscolo, i cromatismi di Storaro, antichi nella sostanza ma moderni nell’esecuzione, concorrono al discorso di Allen sulla fine (di un amore, di un sentimento, di un mood, di un modo di fare cinema) e sul passato (che può essere solo replicato pur con l’estro celebrativo del genio).
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