Regia di Woody Allen vedi scheda film
Per fuggire dall'oppressione di una famiglia castrante, e da un fratello malvivente in odore di sedia elettrica, un giovane ebreo si rifugia dallo zio, facoltoso agente di celebrità hollywoodiane. Woody apre Cannes con un film bolso e dall'intreccio insulso: non bastano i lauti fondi e i jolly tecnici per resuscitarne la freschezza dei bei tempi.
FESTIVAL DI CANNES 2016 - FILM D'APERTURA
Nella Hollywood sontuosa ed esclusiva di inizio anni '30, quando il divismo portava al centro del mondo e del gossip i primi grandi nomi della Mecca del cinema, sopraggiunge da New York un giovane appartenente ad una famiglia della media borghesia ebrea, stufo di lavorare col padre nella bottega orafa di famiglia, ma anche certo di volersi tenere lontano dai malsani ambienti frequentati dal fratello maggiore, un vero e proprio gangster. Approfittando dell'aggancio del pressoché sconosciuto zio Phil, fratello della madre che a Hollywood ha trovato fama e ricchezza divenendo l'agente di riferimento dei primi grandi divi cinematografici di tutti i tempi, Bobby si introduce un pò a forza nell'ambiente esclusivo ed ovattato dello zio, accettando di fare da corriere ed uomo di fiducia di quest'ultimo, riscontrando presto un certo successo. Ricchezza, salotti, una bellissima fidanzata.
Cosa si può desiderare di più? Forse l'amore vero ed autentico, che il ragazzo trova quasi per caso nella persona di una giovane carina, purtroppo già impegnata. Forte dei finanziamenti ricevuti da Amazon, che quest'anno al Festival di Cannes ha investito molto ed elargito somme non scontate nemmeno per un autore universalmente riconosciuto come Woody Allen, Café Society riconferma due tendenze e teorie: la prima è che non bastano i soldi a pioggia per assicurare la riuscita di un film; la seconda è che ormai, inesorabilmente e con una cadenza quasi maniacale, dal comunque sempre grande Woody Allen è ormai naturale attenderci un film accettabile (Basta che funzioni, Blue Jasmine, Irrational man, chi più chi meno, lo erano tutti, seppur in modo differente) seguito da una debacle (Midnight in Paris - si in fondo pure lui, anche se so bene che ha molti affezionati sostenitori - buon per loro - To Rome with love, Magic in the moonlight, ne rappresentano i casi più eclatanti, a mio sindacabilissimo giudizio): quest'anno era il turno dell'opera non riuscita, e puntualmente Café Society ne è l'esempio lampante. Non basta la fotografia strabiliante a cura di Vittorio Storaro, le scenografie sontuose ad opera del fidato Santo Loquasto; nemmeno una salda direzione che si dipana in valide carrellate e pregevoli riprese entro cui sguazza (spesso inutilmente e senza un vero senso compiuto) il nostro imbarazzante protagonista.
A mancare è la storia, il filo conduttore che appare così debole da risultare pressoché invisibile, svilendo a tal punto il film da ridurlo ad una sterile parata di attori giovani, spesso belli o dalla carriera promettente, circondati da sfondi perfettamente ricostruiti e da ambientazioni in grado di riprodurre fedelmente la Hollywood dei tempi d'oro. Ma tutto ciò non basta affatto ad assicurare la riuscita di un film: soprattutto da parte di un regista che, giunto ai livelli di una carriera prolifica e dai risultati mediamente eccezionali, non riuscirà neanche impegnandosi (con opere insulse quali quest'ultima) ad annientare decenni di lavoro ispirato e di altissimo livello. Per il Festival di Cannes, disporre di Allen (il cui ultimo film probabilmente è stato scelto a scatola chiusa, o almeno così sarebbe lecito pensare) come evento d'apertura è senz'altro una conferma e una sicurezza in termini sommari, tattici e puramente di principio: entrando nel merito (discutibilissimo e davvero fragile) dell'opera, la questione diventa certamente più imbarazzante e controversa.
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