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Paradise Beach: Dentro l'incubo

Regia di Jaume Collet-Serra vedi scheda film

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La recensione su Paradise Beach: Dentro l'incubo

di scapigliato
8 stelle

L’improbabilità della trama, soprattutto del finale, non impedisce a Jaume Collet-Serra di confermare il proprio talento come regista di action d’autore e soprattutto di fissare i parametri e le aspettative del redivivo shark movie, facendo il paio con il gemello In the Deep (2016), firmato da Johannes Roberts e prodotto da Alexandre Aja.

Dopo Lo squalo di Spielberg, anno 1975, solo due epigoni hanno saputo giocare con il tema di base confezionando film accattivanti e godibili, come Lo squalo 2 (1978) e L’ultimo squalo (1981) – anche se va detto che sia Lo squalo 3 (1983) che Lo squalo 4 (1987), sanno farsi piacere, forse per un sentimento di nostalgia decadente. Dopo di che, tra gli anni ’90 e i 2000, hanno imperversato soltanto film dozzinali, impostati sul classico tema dello squalo che terrorizza una località balneare, ma senza nerbo alcuno. Sceneggiature televisive per prodotti in parte televisivi e in parte straight to video, attori di dubbia fama, livello del discorso pari a zero e altre povertà tecniche e contenutistiche. Se l’obiettivo è per lo meno divertire con un pop corn movie, che sia fatto bene, che sappia intrattenere davvero lo spettatore e sappia regalare minuti di suspense, terrore, humor o quel che si vuole. Il risultato finale, invece, di titoli come il nostro Fauci crudeli (1995), la serie Shark Attack (1999-2005), l’inguardabile Jersey Shore Shark Attack (2012), Spring Break Shark Attack (2005), Malibu Shark Attack (2009) e via elencando, è quello di prodotti stucchevoli ed imbarazzanti che non hanno saputo rielaborare la lezione spielberghiana consegnando il mito dello squalo alla pura banalità white trash.

Esaurite le già scarse idee inerenti all’universo balneare, le case di produzione più coraggiose, in primis l’Asylum, hanno iniziato una nuova era dello shark trash movie, raggiungendo vette di incredulità spiazzante abbinate a produzioni imbarazzanti in quanto a mezzi tecnici e digitali: Shark in Venice (2008), Mega Shark Versus Crocosaurus (2010), Sharktopus (2010), Sand Shark (2011), Snow Shark (2011), Swamp Shark (2011)  - quello meglio riuscito, 2-Headed Shark Attack (2012), Jurassic Shark (2012), Ghost Shark, (2013), Sharknado (2013), Sharktopus vs Pteracuda (2014) e tanti altri.

A segnare un netto e radicale cambio dello shark movie ci ha pensato già nel 2003 Open Water, diretto da Chris Kentis. Il modello narrativo cambia: non più lo squalo che terrorizza una comunità balneare, ma uno squalo che difende il proprio territorio o che per lo meno si comporta secondo natura e annusa e sfida i malcapitati. Il terrore del mare aperto prende il posto del terrore della mostruosità dagli abissi, ma non sostituisce il terrore che ancora oggi scatena la parola “squalo”, sempre efficace e capace di stimolare le paure più profonde.

L’animale in sé non va demonizzato. Spielberg l’avevo preso come novello Moby Dick e l’aveva inserito nel panorama del turismo di massa e della sempre crescente filosofia consumista americana, come simulacro di una morte primitiva e ancestrale a cui non interessa il profitto, il turismo balneare e l’industria alberghiera. Sono stati i film a seguire, incapaci per povertà culturale e produttiva, di utilizzare con saggezza la figura dello squalo predatore, del terrore che viene dal profondo. Ci sono riusciti, invece, una manciata di titoli che da Open Water in avanti hanno rinverdito il genere dello shark movie variando innanzitutto il modello narrativo.

Titoli come The Riff (2010), Dark Tide (2012) e gli ultimi In the Deep e The Shallows, hanno inseguito più o meno la stessa traiettoria narrativa, non più portando il terrore verso l’uomo e la sua comunità, bensì portando l’uomo verso il terrore, un terrore che così perde la sua simbologia classica, quella di Spielberg, per riacquistare il suo valore naturale: quello di predatore dei mari, di animale carnivoro, senza una coscienza e un’idea di male e cattiveria innate. Lo scarto prodotto da questi nuovi titoli permette ai film di continuare a terrorizzare e intrattenere il pubblico da un lato, e di presentare lo squalo per quello che è nella sua realtà e verità biologica. Difatti, non è detto che alla fine del film lo squalo muoia, segnale di un nuovo rapporto tra mostruosità e vittime degno di essere apprezzato e perpetuato.

Anche film più commerciali e meno riusciti come Shark Night (2011) e Bait (2012), più che allinearsi al nuovo corso battezzato da Open Water, ripropongono un’idea di shark movie classica, di minaccia mostruosa, all’interno di una struttura narrativa tipica di uno slasher commerciale. Nonostante questo, la fattura dei due titoli è molto buona e possono inserirsi in questa nuova e felice ondata di shark movies.

Nello specifico, The Shallows, utilizza gli elementi narrativi di questa nuova linea narrativa, ovvero l’isolazione in acqua, il mare aperto, la natura selvaggia, il movimento protagonista verso mostruosità, e non il contrario, in sincronia con la vecchia simbologia spielberghiana di male atavico, primordiale, ferino, simbolo di un rimosso, di un blocco psicologico, di esistenzialismi, di paure o di repressioni tali che si concretizzano nella mostruosità viscida, umida, abissale, fallica e senz’anima del corpo squaliforme. In The Shallows i segni della morte sono anche i segni del percorso esistenziale della protagonista: il cadavere della balena, la spiaggia isolata e l’isola dalla forma di una donna incinta come paesaggi mortiferi, inospitali e indifferenti alla tragedia, gli squarti fisici, gli smembramenti, il gabbiano ferito.

Se il piano della storia, con i suoi esistenti, non bastasse a richiamare l’attenzione su un’opera sì di facile lettura, ma proprio per questo più divertente e godibile, c’è anche il piano del discorso in cui Collet-Serra sfodera la sua abilità ritmica e selezionatrice, montando e orchestrando le immagini in modo impeccabile. Le immagini in GoPro, fastidiose altrove, qui aiutano a immergersi totalmente nella vicenda e nella tensione palpitante dei vari personaggi. Le riprese subacquee, quelle a pelo d’acqua, quelle a piombo, i tagli, le inquadrature, le profondità di campo, la fotografia smaccata e satura di colorazioni vive e forti come fredde e umbratili, la concezione iconica dell’immagine fine a se stessa, se altrove diventano zavorre del discorso filmico finendo per inaridire le strutture narrativa dello shark movie o di un animal attack movie qualsiasi, in mano a Collet-Serra sanno essere contenute ed efficaci.

Lo scivolone finale, fa da contraltare a In the Deep, il film gemello di The Shallows. Forse sarebbe stato meglio Aja in cabina di regia, ma l’enfant prodige del cinema nero attuale ha preferito il ruolo di produttore affidando al mediocre Johannes Roberts la regia. Se il vecchio Roadkill (2011) era un B movie divertente e giocoso, The Other Side of the Door (2016), confermava la scarsa qualità di Roberts regista. In the Deep invece, non solo sembra ancorarsi di più al verosimile rispetto a Collet-Serra, ma nel finale gioca una carta interessante che lo avvicina a Dark Tide, sottovalutato shark movie di John Stokwell, l’indimenticato Dennis di Christine (1983). Unitamente a questa scelta narrativa ce n’è un’altra che caratterizza questo preciso modello di racconto iniziato da Open Water, ed è la riduzione a due o a un solo personaggio. Con qualche altro generico intorno, la riduzione dei personaggi e l’isolazione in alto mare fanno da pilastri drammatici all’intera impalcatura narrativa. Questo aiuta sia il film di Collet-Serra sia quello di Roberts, a farsi piacere nonostante le improbabilità della trama. Improbabilità che, come più spesso ripetuto, non devono essere alla base di critiche discriminatorie verso i film. L’arte cinematografica sarebbe davvero ben poco cosa se continuasse a raccontare il reale sempre e solo così com’è. Bisogna sconfinare nel simbolismo, nell’incredulità e nella rappresentazione per godere appieno il gioco artistico del mezzo cinematografico. Senza per questo concedere cittadinanza alla puerilità trash di prodotti dozzinali senza strutture narrative, personaggi ed equipaggiamento tecnico decenti. La professione contr l’amatoriale, piaga ormai dilagante anche nell’industria cinematografica tra documentari, horror e porno fatti in casa da chiunque.

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