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Man in the Dark

Regia di Fede Alvarez vedi scheda film

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La recensione su Man in the Dark

di scapigliato
9 stelle

Dopo due cortometraggi che l’hanno fatto conoscere a livello mondiale, El cojonudo (2005) e Ataque de pánico (2009), quest’ultimo in particolare, caso virale in Youtube che ha solleticato la curiosità di Sam Raimi, e dopo l’interessante aggiornamento proprio del classico di Raimi, Evil Dead (2013), l’uruguayo Fede Álvarez, di suo poco prolifico, si ripresenta nel 2016 con uno degli horror più interessanti e riusciti degli ultimi anni.

Privo di elementi fantastici, ben congeniato anche se non perfetto, Don’t Breathe – No respires (2016) è già un classico del genere. Da Cane di paglia (1971) a The Purge (2013), passando per L’ultima casa a sinistra (1972), Funny Games (1997), Panic Room (2002), The Strangers (2008), You’re the Next (2011), Mockingbird (2014), Hush (2016) e, nomen omen, Home Invasion (2016), il film di Álvarez si inserisce in un filone cinematografico tra i più politici e battuti dal genere che va dal classico tema del home invasion, ovvero l’assalto al fortino, alias la proprietà domestica privata, alias la Casa Bianca, alias il Paese, fino al principale motivo ad esso strettamente legato, il ribaltamento di ruoli: gli aguzzini diventano vittime, la vittima l’aguzzino. Il film si sviluppa sulla più canonica traiettoria narrativa di riferimento e la sua forza sta proprio nel variare il tema, raccontare di nuovo il mito, rivificando il genere.

In mezzo al home invasion e al ribaltamento di ruoli vittima/aguzzino, Álvarez ci mette molto altro: la figura del mite vicino di casa che in realtà nasconde tutt’altra identità; la casa isolata, quasi una declinazione realista della vecchia casa stregata, o comunque, la casa americana per eccellenza, in apparenza normale vista da fuori, ma che all’interno nasconde indicibili segreti; la minaccia animale rappresentata dal feroce e immortale rottweiler a guardia della casa; il reduce di guerra, questa volta l’Afghanistan, come vittima e simulacro degli orrori del mondo; la menomazione dell’antagonista, in questo caso la cecità, che lo rendono non solo più interessante sulla carta, ma anche più efficace all’interno del sistema dei personaggi, richiamando alla memoria altri non vedenti protagonisti di storie thrilling come Audrey Hepburn in Gli occhi della notte (1967), Mia Farrow in Terrore cieco (1971), Rutger Hauer in Furia cieca (1989), Uma Thurman in Gli occhi del delitto (1992), Madeleine Stone in Blink (1994), Belén Rueda in Los ojos de Julia (2010) e Kate Siegel in Hush (2016), anche se in questo caso si tratta di una protagonista sordomuta.

È proprio sul personaggio dell’anziano ex militare cieco che vive in un quartiere fantasma, che fa molto ghost town, che Fede Álvarez convoglia tutte le proprie energie, cucendo attorno al sempre perfetto Stephen Lang un ruolo già diventato di culto. Il suo Blind Man è tra i boogeyman migliori di questi ultimi anni. Totalmente fisico, carnale, selvaggio, animalesco, l’Uomo Cieco di Lang è un tutt’uno con l’ambiente che lo circonda. È la sua casa, è ogni sua stanza, ogni suo corridoio, ogni sua parete, finestra, botola; ma è anche l’animale totemico che porta con sé, tant’è che il suo rottweiler è quasi una sua prosecuzione: l’animalità sanguinaria e istintiva di Stephen Lang è più quella di un uomo regredito allo stato animale, nello specifico canide, che di un soldato istruito alla lotta mortale in territori ostili. Quasi come un ersatz animale, il rottweiler è il paradigma del suo padrone: non parla, ma ringhia, corre, salta, sopravvive sempre, dotato di una irruenza e di una energia bestiali non comuni. Il sospetto di essere davanti a una nuova immortale maschera dell’horror contemporaneo dopo Ghostface, il Creeper, Gigsaw e il Mick Taylor di Wolf Creek (2005), è molto probabile, quasi certo. A conferma di questa sensazione c’è la “maschera”: Blind Man non è soltanto un guerriero domestico dalla forza bruta, ma il suo volto, genialmente pensato e realizzato in sede di trucco, lo rende più vicino al mostro di origini fantastiche che al killer tipico di un thriller. Nello specifico, azzarderei la figura dell’orco come l’origine ideale del personaggio di Blind Man.

Un uomo, o meglio, un omone, dalle grosse dimensioni, dall’aspetto bruto, peloso, barbuto, muscoloso, che vive isolato in grotte, caverne, antri oscuri, in boschi impenetrabili, paludi spaventose, che rapisce bambini, che li mangia o che tiene in schiavitù una bella principessa. Le analogie tra i tratti più comuni dell’orco delle favole rivivono proprio nel Blind Man di Don’t Breathe. Inoltre, Álvarez, attraverso questo efficace e ben riuscito personaggio mimetico arricchisce il discorso sul genere, in particolare l’home invasion articolato con i temi e i motivi citati poco sopra. In Don’t Breathe non ci sono buoni o cattivi. Certo, il ribaltamento di ruoli c’è ed è evidente, ma non è modulato sul modello classico. Impossibile non empatizzare con i ragazzi, ma nemmeno con il vecchio cieco, e al tempo stesso non è impossibile detestare sia i giovani che l’adulto, ciascuno per i propri lati oscuri. Insomma, tutti sono vittime della propria carneficina, figli interrotti di un sistema brutale, metropolitano, che del bosco delle favole ha solo qualche lontano richiamo – la minaccia animale, la notte e il rinselvatichimento del quartiere abbandonato che la vegetazione si è ripresa a poco a poco. Il conflitto tra i giovani protagonisti e la loro nemesi adulta, più che generazionale – non c’è infatti nessuna questione politica o sociale a creare lo scontro tra i personaggi – è storico e universale, tant’è che il sistema dei personaggi è attraversato soprattutto da tensioni ataviche e animalesche come la sopravvivenza, la fame, l’istintualità, il corpo e la fisicità dello scontro. Con l’orco ideato con acume dal regista, anche sceneggiatore insieme al sodale Rodo Sayagues, il film spiazza ad ogni svolta narrativa e apre squarci di orrore domestico che vanno oltre l’immanenza del filone di appartenenza, sconfinando nella favola nera, universale e non databile.

Formalmente il film si propone anche come un manifesto delle più semplici e artigianali tecniche di messa in scena e di ripresa dando molta importanza al profilmico e anche al montaggio, alla fotografia – la ripresa in completa oscurità durante la caccia in cantina è un capolavoro – e anche alla suggestiva partitura di Roque Baños uno dei maggiori compositori cinematografici del contemporaneo, l’unico avvicinabile allo stile e all’idea tematica di Morricone.

Fede Álvarez, nonostante il background di Blind Man – la morte della figlia, il passato violento in guerra, etc. – desumanizza il suo personaggio e nel confronto con i tre protagonisti – iperumanizzati: la ragazza, che per nobili motivi vuole andarsene in California con la sorellina; il suo ragazzo, che nonostante sia irritante e giochi a fare il gangster di quartiere finisce per implorare pietà al cieco; e il timido amico della coppia che pur non volendo e non cercando morte e violenza dovrà fare le sue scelte etiche – lo definisce come la concrezione di un orrore impietoso, autarchico, un orrore che basta a se stesso. In questa operazione, l’orco interpretato da Stephen Lang, pur restando ben ancorato al contesto in cui nasce, ben radicato quindi in un’idea realista di orrore carnale, s’invola in paradigmi irrazionali, evanescenti, informi, infine fantastici che lo avvicinano sia al Leatherface di Non aprite quella porta (1973) in quanto animalesco, sia al Michael Myers di Halloween (1978) in quanto a ubiquità e immortalità. Le capacità mitopoietiche del regista e la bravura di Stephen Lang fanno di Blind Man una delle mostruosità più riuscite dell’immaginario terrorifico del nuovo secolo. Politico, politicamente scorretto, universale, Blind Man è The Shape, più di molti altri inefficaci mostri del contemporaneo.

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