Regia di Tate Taylor vedi scheda film
Visto comunque che si tratta di un giallo, il regista non si doveva fermare semplicemente a un’indagine psicologica di superficie dentro i meandri della mente alterata di un’alcolista con procedimento narrativo troppo contorto che rende farraginosa la vicenda.
Già il romanzo di partenza è poca cosa (si fatica davvero a comprendere come un thriller mediocre come questo possa essere diventato un best seller ed è davvero un segnale più che preoccupante perché certifica come anche la letteratura anche di genere attraversi una crisi forse irreversibile). Purtroppo però il film è ancora peggio (e anche qui si fatica abbastanza a capire le ragioni che lo hanno fatto apprezzare così tanto – almeno a giudicare dagli incassi non proprio miserevoli conseguiti qui in Italia e i paralleli fatti con altre recenti opere di ben più alta levatura e coinvolgimento) perché se l’unico vero punto di forza del libro era la coralità delle voci (il punto di vista paritario delle tre donne che animano la vicenda, mantenute tutte sullo stesso piano) nel film si perde anche questa interessante pluralità di visione e di pensiero concentrandosi soprattutto sulla figura di Rachel e relegando le altre due donne a comprimarie (sia pure di lusso).
Si supplisce (a mio avviso malamente) con un affannato andirivieni temporale e un altrettanto tedioso utilizzo della voce fuoricampo per tentare di collegare fra loro i vari piani con un procedimento più che farraginoso motivato (ma lo apprenderemo poi incorso d’opera) dal continuo parlottare “etilico” e reticente della protagonista (la ragazza del treno, appunto) giustificato dai vuoti di memoria che la affliggono a causa di un alcolismo cronico dal quale la donna tenta disperatamente di uscire fuori.
Difficile davvero se non si possiede il talento di un Lynch o di qualche altro regista che per comodità definirei come appartenente alla corrente della visionarietà geniale, far procedere senza intoppi le incasinate vicende del racconto mantenendo al contempo il giusto sguardo introspettivo (particolarmente importante in una situazione ingarbugliata come questa più per come si è voluto mischiare le carte che per effettiva mancanza di linearità dei fatti che peraltro avrebbe reso tutto molto più chiario – ma anche più banale - se questi fossero stati presentati cronologicamente).
Purtroppo Tate Taylor questa speciale qualità non la possiede (ed è soprattutto qui che casca l’asino): lui sa solo scimmiottare (ma lo fa anche male) riuscendo persino a creare una frizione fra il prolisso e un po’ confuso inizio e la più lineare (anche stilisticamente parlando) seconda parte che ci porterà alla soluzione dell’intrigo via via che i fumi dell’alcol si diraderanno e Rachel tornerà lentamente a prendere coscienza dell’accaduto rendendone così edotto anche lo spettatore.
La storia è dunque soprattutto quella di Rachel che con il treno passa due volte al giorno davanti alla casa di una coppia che lei immagina perfetta. Casa che si trova (ma guarda che caso fortunato!) accanto a quella di un’altra coppia, in cui l’uomo è stato anche l’ex marito della donna. Osservando quasi maniacalmente dal finestrino quell’abitazione (e nonostante la precarietà della sua mente) scoprirà qualcosa di importante che la indurrà a cercare di rimettere a posto i pezzi sconnessi del puzzle della sua vita.
Naturalmente (visto che di un giallo si tratta anche se zeppo di sfumature sexy e non ci si può dunque fermare semplicemente a un’indagine psicologica di superficie dentro i meandri della mente alterata di un’alcolista) ci casca pure il morto (e non poteva essere altrimenti). Per poterla tirare per le lunghe (perché la soluzione altrimenti sarebbe stata abbastanza abbordabile in tempi molto più brevi (almeno io ho avuto quest’impressione che poi è quella di aver constato che alla fine la montagna aveva partorito un topolino) si è ricorsi a quel procedimento strampalato a cui ho accennato prima riempiendo la pellicola (artificiosamente) di continui sbalzi in avanti e all’indietro e cambi di punti di vista peraltro non suffragati da particolari esigenze narrative che finiscono solo per assumere il senso di un mero vezzo un po’ gigionesco (guardate come sono stato bravo a confondere le carte sembra voler dire il regista e come ho saputo trasporre bene sullo schermo un romanzo difficile da rappresentare come quello della Hawkins mantenendone tutte le ambiguità di fondo sia pure ricorrendo a espedienti differenti rispetto a quelli della scrittura) che è riuscito però a mio avviso a creare soltanto una fastidiosa insofferenza nello spettatore (mi riferisco evidentemente alle mie reazioni e magari sono anche in minoranza, ma questo è quello che ho provato, aggravato poi da un sottile senso di noia che per me è un vero peccato capitale per un film come questo che vorrebbe peraltro rinverdire ad aggiornare ai nostri tempi, i fasti del giallo classico).
Il cast femminile comunque è abbastanza interessante nella resa anche se Emily Blunt - la vera protagonista della storia - è più sfocata (quasi smarrita si direbbe) rispetto alle ottime prove che ha fornito in precedenza e non riesce a esprimere in pieno tutte le sfaccettature che il suo personaggio richiederebbe. Il versante maschile invece se la cava meno egregiamente ma qui la colpa è anche della sceneggiatura perché manca un adeguato approfondimento dei caratteri e le loro diventano di conseguenze semplici figure “funzionali” anche se nella storia non sono certo meno importanti di quello assegnato alle tre donne, il che finisce per sbilanciare troppo gli equilibri finali del racconto.
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