Regia di Scott Derrickson vedi scheda film
Ormai l’immaginario magico cinematografico è presidiato dal retaggio di Harry Potter, da una stregoneria immaginativa prima che escatologica, fatta di animali fantastici (e di dove trovarli) e di incantesimi leggiadri, di protagonisti infanti e di un’aura favolistica che si stempera solo negli ultimi capitoli della saga del maghetto. Il personaggio del Dottor Strange, il mago supremo dell’universo Marvel, nasce invece negli Anni 60, in piena psichedelia, con un tratto grafico lisergico nelle sue evoluzioni extra-dimensionali che è diretta eredità di una percezione alterata della realtà. Il mondo di Strange convive col nostro in una dimensione mistica parallela, con un corpo alternativo e privo di peso, quasi intangibile e una visione multidimensionale dello spazio e del tempo che sfondano ogni barriera del percettibile se non agli iniziati. L’adeguamento del personaggio alla contemporaneità, cinematografica e sociale, passa attraverso la visione manipolata delle leggi fisiche e della logica già proposta (ma come declinazione onirica) in Inception radicandolo in un realismo fotografico di fondo che può fare a meno della visionarietà eccentrica e beat del modello originale pur mantenendo la possibilità di stirare la percezione e aprirvi (anche fisicamente) nuove porte di accesso all’invisibile.
Su questi presupposti di grande libertà grafica, il film si propone altresì come una fedele ricostruzione della genesi del personaggio, con le debite tappe di caduta e risalita dell’eroe, rimarcando l’arroganza del chirurgo (entrata nella vulgata da E.R. in poi) e i difetti caratteriali dell’uomo che si considera infallibile, il quale, dopo la canonica sofferenza e una nuova disciplina, rinasce mago, capace di ricucire la realtà come richiudeva e guariva la carne. Eppure il film manca però di inventiva, pur nella potenzialità di completa deformazione del reale a disposizione, sia tecnicamente che narrativamente, peccando di modestia tanto da risultare poco credibile già nella basica rappresentazione del volo dei corpi e finanche ridicolo nella ripetizione di alcuni gesti topici, come il cerchio escapista fatto da una mano che disegna circoli nell’aria, mentre l’altra sembra immobilizzata in una benedizione cattolica.
Se Cumberbact rende dignità al suo ruolo senza mai calcare i toni e profondendo una sana ironia di razionale scetticismo (quasi un’eredità del suo Sherlock), gli altri personaggi paiono poco approfonditi, sin dall’Antico, pur dotato dell’aura androgina e fascinosa di Tilda Swinton, fino a, soprattutto, Mads Mikkelsen, nemesi per definizione del personaggio, precedente allievo dell’Antico votato però al Male del demone Dormammu e alla sua volontà di unificazione oscura dell’universo. Questa brutta copia di Strange vive solo per contrasto con l’alunno migliore e per riflesso delle ambizioni totalitarie del suo padrone mistico, perdendo così qualsiasi personalità.
Ma è lo stesso film che sembra funzionare come ingrediente di contorno per uno sfondamento sul piano mistico delle avventure degli Avengers (Thor appare dopo i titoli di coda come antipasto del prossimo Ragnarok), ponendosi come ponte anche con le scorribande spaziali dei Guardiani della Galassia dato che l’Occhio di Agamotto, l’utensile magico per eccellenza di Strange, non è che una delle gemme dell’infinito tanto ambite da Thanos e variamente distribuite negli altri film del MCU. Eppure, al di là di una certa stanchezza generale dell’impianto di tessere da completare dell’Universo Marvel, il film ha una sua gradevolezza nella comicità di alcuni artifici (il Mantello della levitazione dotato di autonomia decisionale), nel distacco recitativo di Cumberbact, nella costruzione immaginifica di mondi dalla geometria e geografia variabile, nella ricostruzione a ritroso del tempo passato (ma senza esiti paradossali) così come nell’adesione al fumetto originale. Eppure la regia sembra ammansita da tanta libertà potenziale e si rifugia in un costante gioco di ripetizioni e piccole variazioni, che la sceneggiatura già gli impone, senza mai suggerire l’effettivo desiderio di evadere dal carcere dorato della superproduzione, come invece avevano fatto, nella modalità ironica che sembra timidamente trapelare anche nella pellicola di Derrickson, James Gunn e Peyton Reed nei loro film su analoghi supereroi declinandone le avventure, rispettivamente, in stile Firefly e rom-com demenziale.
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta