Regia di Lawrence Roeck vedi scheda film
Oltre la speranza, oltre il rimpianto, oltre la salvezza. Così recita il bel manifesto di Diablo, western nordico diretto da Lawrence Roeck (The Forger, 2012) che vanta Scott Eastwood nel suo primo film western, emulando il padre nel tratteggio del personaggio e ovviamente nell’aspetto fisico di The Outlaw Josey Wales (1976).
Nell’esponenziale produzione di film western che sta caratterizzando l’America e l’Europa degli anni zerodieci, Diablo si ritaglia un posto di tutto rispetto. Non è una produzione semi-professionale, come le tante che nascono in USA intorno a generi e a plot tipici dell’exploitation popolare americana, come appunto il western, ma anche l’horror, in particolare il werewolf movie e l’animal attack movie. Diablo, pur lamentando un certo limite in sceneggiatura e nel ritmo narrativo, ha dalla sua uno sguardo interessante del regista che abbina il solido revenge western con l’esistenziale, il filosofico e il bizzarro.
Da un lato il rapimento della moglie del protagonista che farà di tutto per cercarla e vendicarsi, dall’altro la bizzarra presenza di personaggi quasi fuori luogo, nei quali si ravvisa qualcosa di più che la figurazione immanente del tipo, bensì un’allegoria, una simbologia. Così, il bambino indiano, il vecchio cinese, il pistolero in cilindro interpretato da Walter Goggins e il fattore nero interpretato da Danny Glover, sembrano dire qualcosa di più delle loro fattezze cronotopiche. Tant’è che i momenti migliori del film sono quelli in cui Goggins, uno tra i caratteristi meglio considerati oggi in America, oltre che uno dei ruoli più caratteristici del western odierno, entra in scena con la sua presenza tra l’inquietante e l’enigmatico, lanciandosi in duetti verbali e sfide attoriali con Scott Eastwood. La sua presenza, come quella di altri personaggi, compresi i messicani che hanno rapito la moglie al giovane protagonista, e la moglie stessa, è una presenza sfuggente, ambigua e così borderline che non è difficile scorgere l’intenzione alta del regista che gioca palesemente con simboli, allegorie e trascendenze. Vita e morte si inseguono così in simbolismi criptati, sottacendo una verità che via via si verrà a palesare agli occhi dello spettatore. Su tutto questo regna un’ambiente naturale che il regista sa far vivere come un vero e proprio personaggio attraverso campi totali, lunghi e lunghissimi che potenziano la bellezza di una natura ferina quanto simbolica, e anche attraverso eccezionali inquadrature a piombo che opprimono l’immagine del protagonista senza però opprimere la natura stessa.
Applauso per Scott Eastwood che finalmente ha dato una prova di sé interessante e coinvolgente. Notoriamente attore di legno, non ha mai brillato nei film a cui ha partecipato, soprattutto in quei pochi da protagonista (su tutti The Perfect Wave, un imbarazzante christian family oriented del 2014). Qui invece, giocoforza l’incredibile somiglianza con il padre, Scotty riesce a essere se stesso, soprattutto quando non si ricorda di recitare e lascia così che la naturalezza del gesto, delle pose e degli sguardi del padre che porta nel suo DNA, si liberino inconsciamente e spontaneamente.
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