Regia di François Ozon vedi scheda film
FRANTZ
Film sui temi dell’illusione, dell’incomprensione e del fraintendimento.
Grande rilievo hanno la simulazione, il nascondimento come pietas e come forma necessaria e benefica per la sopravvivenza.
Vi albergano, sempre, il dolore, il bisogno di espiazione che contrasta l’anelito al perdono, la speranza e la disillusione. L’orrore e la stupidità della guerra sono denunciati in modo sommesso ma chiaro, senza retorica ma come affronto indicibile all’uomo e al concetto di “umanità” che, forse, bisognerebbe ridisegnare. Presente, ancora, l’inevitabilità di un male che non ha perché. Tutti questi aspetti si mescolano, si nutrono e s’inseguono nel film di François Ozon.
Adrien è alla ricerca del perdono, forse meglio di un perdono, dal momento che non si capirà per un certo tratto del film che cosa l’abbia precisamente spinto a venire da Parigi in un piccolo centro della Germania sud occidentale, nel 1919, pochi mesi dopo la fine della prima guerra mondiale.
Ma, tutto passa, ogni cosa è pura illusione, le aspettative che spingono ad un qualsiasi gesto non trovano conferma negli avvenimenti.
Così, quando Adrien si presenta alla porta del dottor Hoffmeister, il medico del piccolo villaggio tedesco, questi, saputa la sua nazionalità, si rifiuta di visitarlo. E forse, a posteriori, potrebbe essere quella la soluzione giusta per Adrien. Non l’ottenimento del perdono, ma l’espiazione per un male che sente e sa di avere compiuto. La giusta contropartita che gli permetterà di mantenere quella sofferenza che, sola, potrà controbilanciare ai propri occhi il dolore, l’offesa arrecata altrui.
Ma, di fronte alla nuova realtà, a persone dolorose e buone, semplici e bisognose di sperare che esista una via d’uscita, che ci sia stato anche solo un barlume di umanità nella vicenda del figlio mai ritornato dalla guerra, Adrien riesce a far tacere le sue impellenti necessità interiori e si trova quasi senza volerlo a narrare una storia che, a mano a mano che procede, si accorge procurare serenità alla persone che lo accolgono fiduciose nella loro casa.
Anna ritrova Frantz nei tratti gentili e pietosi di Adrien. Quel nuovo arrivato, venuto dal nulla, che ha conosciuto l’uomo che lei avrebbe dovuto sposare, a poco a poco si sostituisce a lui. Anche Frantz, seppure in modo amatoriale, suona(va) il violino, strumento che Adrien pratica con maestria in un’orchestra. Entrambi amano la poesia di Verlaine, tutti e due sono pacifisti…
Anna, prima di “perdonare” Adrien se ne innamora e, quando l’uomo riesce a confessarle la ragione precisa per cui le chiede l’assoluzione, di liberarlo dal tormento della verità, lei quasi inconsciamente si appresta a togliersi la vita.
Ma, di nuovo, è la solidarietà per gli altri a prevalere. Imboccata la strada di un bene illusorio, bisogna percorrerla fino alla fine. E Anna, spinta dai genitori di Frantz, va a sua volta in Francia a cercare Adrien che, nel frattempo, se n’era andato dalla Germania, forse convinto di avere raggiunto il massimo equilibrio possibile. Così la storia si rovescia, ci sono ulteriori sviluppi, altre speranze, nuovi accessi a fraintendimenti inattesi.
Nel film si alternano luci ed ombre, colori impalpabili inseguono un bianco e nero più intimo che oscuro, sogno e veglia si confondono, realtà e finzione, speranza e disperazione si affiancano con coerenza incessante.
Si può ben parlare di un “nuovo” film di Ozon, come sempre accade per questo regista francese, versatile ma mai superficiale, anzi propenso ad addentrarsi in territori ostici e densi di incognite. “Frantz” si staglia nella nutrita cinematografia del cineasta transalpino per i contenuti, il soggetto trattato, l’ambientazione storica, per la capacità di trattare sentimenti delicati e crudeli senza sbavature o eccessi retorici, soprattutto per l’onestà di guardare con disincanto al dramma della disillusione. Centrata appare la scelta dei quattro personaggi principali, attorno ai quali gira tutta la vicenda. Ognuno di essi è portatore di una personalità specifica, di un dramma privato e oscuro: lo sguardo luminoso ed intenso di Adrien è rivelatore di un bisogno di catarsi, ignaro però dei sentimenti che va a scatenare; quello compunto e doloroso di Anna, quasi consapevole di dover vivere nell’illusione: entrambi ci hanno riportato per lunghi attimi ai volti e all’incedere silenzioso di alcune figure presenti nei quadri di Silvestro Lega; tenerezza vera ispira il volto della madre di Frantz. Infine, la durezza dei tratti del viso del padre si trasforma a poco a poco in rassegnata dolcezza, in forza del benefico allontanamento di ogni verità da cui viene protetto.
Un film dolce e spietato, cui si può forse rimproverare di essere troppo perfetto e letterario (il soggetto è tratto dal libro L’homme que j’ai tué di Maurice Rostand), soprattutto per chi lo guardi con la lente della vacuità contemporanea. Ma, certo, è possibile trarre il sentimento opposto di conforto per uno stacco così netto dal nostro oggi, che ci consente la difesa dall’orrore solo col rifugiarci nella banalità. Sarebbe, però, ipocrita celarsi il dato che le immagini finali del film sembrano indurre, se non alla speranza, almeno al dover sperare.
Adrien è interpretato da Pierre Niney, Anna da Paula Beer, il dottor Hoffmeister e la moglie Magda rispettivamente da Ernst Stötzner e Marie Gruber. Ozon, oltre che il regista, è anche lo sceneggiatore del film.
Enzo Vignoli
21 ottobre 2016
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