Regia di François Ozon vedi scheda film
Più che bello o riuscito, L’uomo che ho ucciso di Ernst Lubitsch è quel che si dice un film importante, intimamente legato alla coscienza europea come lo furono il tedesco Westfront 1918 di Pabst o il francese Le croci di legno di Bernard. Sono film che, negli anni trenta, dopo un decennio di elaborazione del lutto (qualche cifra: la Francia pianse più di un milione e mezzo di morti, la Germania, l’Italia un milione e duecentomila circa, la Germania quasi due milioni e mezzo), affrontano di petto la follia del conflitto bellico rimettendolo in scena con realismo (sfruttando, non ultime, le nuove potenzialità del sonoro) e rincorrendo messaggi pacifisti in nome di un umanismo anche continentale. Dopo qualche anno, La grande illusione di Renoir, raccontando di quella guerra, annunciò l’imminente catastrofe. A differenza di Pabst o Bernard, Lubitsch preferì narrare il trauma del dopoguerra, il tormento della colpa nazionale che investe il singolo, il dilemma del perdono. Non è tra i migliori lavori del grande autore ma il suo valore civile lo rende notevole.
Nell’ambito delle celebrazioni del centenario della Grande guerra, François Ozon, regista amorosamente cinefilo, recupera quel Lubitsch d’antan, pressoché dimenticato e comunque poco visto, e lo ripropone ad un pubblico rinnovato, meno emotivamente coinvolto con la tragedia e soprattutto sempre più suscettibile a pulsioni separatiste, paure funeste, indisposizione al confronto e al dialogo. Ozon ha capito che quell’antica storia ha maturato un’importanza addirittura più forte oggi rispetto a ieri. Il francese veterano (il sottile e ambiguo Pierre Niney) che si reca sulla tomba di un ragazzo tedesco, che ha lasciato “vedova” la fidanzata (la splendida Paula Beer) è il punto di partenza per affrontare tutti i temi di cui sopra in una prospettiva meno ancorata al recente fantasma bellico e maggiormente tesa ad un discorso umano. Se in Lubitsch il problema era la riconciliazione tra i popoli attraverso le esperienze umane dei singoli, in Ozon la tensione è tutta nelle persone, nella loro dislocazione nello spazio dell’inquadratura e nel taglio di luce che rifulge la loro malinconia.
Quando l’identità nazionale sovrasta quella individuale, i personaggi rivelano grettezza (gli amici del dottor Hoffmesteir che si rifiutano di bere con lui – l’attore è il bravissimo Ernst Stotzner) o cinismo (il fronte come un qualunque argomento di chiacchiera in tavola), e il patriottismo ci mette un attimo a sfiorare il nazionalismo (l’ostilità dei tedeschi feriti all’estraneo francese, la pur emozionante Marsigliese, la diffidenza della madre del protagonista nei confronti della tedeschina). Tornando in un’epoca dominata dalla morte (la generazione di Frantz è stata decimata: un problema sociale, demografico, storico, emotivo), Ozon vuole raccontare il dolore di chi non può più vivere che con la morte: nel ricordo di un figlio perduto (esemplare il discorso di Hoffmesteir agli amici sulla responsabilità morale, ma straziante una frase della moglie, la dolce Marie Gruber, alla nuora: «non temere di darci una gioia») o nell’ossessione di un delitto (il protagonista reclama il perdono che non sa concedersi).
Con la consapevolezza di un autore vero, Ozon rimaneggia il prototipo con emanazioni narrative (la seconda parte è farina del suo sacco), suggestioni estetiche (Frantz che spunta come incubo tangibile), omaggi figurativi (certi quadretti nel salotto degli Hoffmesteir) e soprattutto proseguendo quel lavoro su realtà e finzione che è cifra del suo cinema (con le loro peculiarità, la verità come “personale versione dei fatti” di 8 donne e un mistero, le parabole delle scrittrici di Swimming Pool e Angel, il gioco al massacro di Nella casa stanno lì a dimostrarlo). Se il bianco e nero è funzionale al dolore dell’apologo, alla tragedia della realtà, il colore s’insinua nei rari momenti di eventuale felicità che spesso coincidono con quelli inventati dal protagonista (la scena del violino trasmette anche una latente tensione omoerotica). La stessa guerra, a colori, è una rappresentazione talmente stilizzata da voler simulare un’impossibile finzione oppure suggerire l’idea che sul fronte non si può essere se stessi. Quello di Ozon è un cinema finalmente problematico che nemmeno l’ipotesi lieta di un finale rivolto al futuro riesce a sciogliere serenamente; ed è uno dei più importanti tra i recenti contribuiti alla discussione sull’idea di Europa.
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