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Civiltà perduta

Regia di James Gray vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su Civiltà perduta

di mck
9 stelle

Something hidden. Go and find it. Go and look behind the Ranges. / Something lost behind the Ranges. Lost and waiting for you. Go!

 

 

Nel panorama del cinema statunitense contemporaneo (e non solo) la tematica padre-figlio espressa all’interno dell’opera di James Gray (“Little Odessa”, “the Yards”, “We Own the Night”, “Two Lovers”, “the Immigrant”, “Ad Astra”) è seconda per importanza e valenza forse solo rispetto a quella generata e rappresentata dal filo rosso che collega le opere di Paul Thomas Anderson pre-“Phantom Thread”.

 


Da un figlio(-padre) che non riesce, non vuole e non può confrontarsi e riconciliarsi col proprio padre...

- You know, we knew your father.
- Did you?
- Yes.
- I did not.

...ad un figlio che può, vuole e riesce nell’intento di comprendere e riappacificarsi col proprio padre(-figlio).

 


The Lost City of Z, dipanandosi lungo tutto il primo quarto del secolo ventesimo, è la messa in scena di una sceneggiatura (scritta in assolo dallo stesso regista) tratta da un romanzo di non-fiction - opera d’esordio sulla lunga distanza del 2009 di David Grann, lo stesso giornalista in quota New Yorker autore dell’articolo del 2003 alla base di “the Old Man & the Gun” del 2018 - basato su racconti e leggende tramandate attraverso la tradizione orale indigena-sudamerinda e innervato d’interpretazioni tanto meravigliose e stimolanti quanto in parte esagerate, distorte ed inaffidabili, è “Apocalypse Now” innestato in “the Thin Red Line”, è “Fitzcarraldo” in simbiosi con “the New World”, è “Aguirre, der Zorn Gottes” che collassa in “el Abrazo del la Serpiente”, è “the White Diamond” che sorvola i “Paths of Glory” (d)e(l)la “Frontera Verde”...

 


Charlie Hunnam (“Crimson Peak”, “Triple Frontier”) sfodera la sua interpretazione migliore dopo l’immersione totale in “Sons of Anarchy”.
Robert Pattinson, già Lawrence d’Arabia per Werner Herzog, dopo questo film si dirigerà verso altri avamposti, terrestri e non: “High Life”, “the LightHouse”, “Waiting for the Barbarians”...
Chiudono il cast Sienna Miller (bravissima), Tom Holland, Angus MacFadyen, Ian McDiarmid, Franco Nero...

 


Fotografia di Darius Khondji (con Gray anche nel precedente “the Immigrant”, che qui ripropone - senza insensate e dissennate prevaricazioni di filtraggio e viraggio - il proprio caratteristico itterico icore), montaggio di John Axelrad (con Gray da “We Own the Night”) e Lee Haugen (con Gray da “Two Lovers”) e musiche del sempre ottimo e lodevole Christopher Spelman (con Gray da “the Yards”).
La Colombia interpreta i dintorni dello spartiacque fra Bolivia e Brasile.

 


Da notare: l’ultima partenza che richiama i locomotivati schiaffi di cinepresa che attraversano le dormienti stanze di chi resta e rimane de “i Vitelloni”...

 


...e il finale che (specchio-finestra) autocita “the Immigrant”.

[Cliccare sull'immagine ↑ per aprire la "corrispettiva" presente nel film precedente di James Gray.]

 


Le future esplorazioni diradarono la coltre di ridicolo che aveva pervaso le idee di Percy Fawcett per un secolo rilevando una folta e fitta rete di costruzioni, strade, ponti e complessi sistemi di appezzamenti e insediamenti agricoli (ritorna l’Explorer kiplinghiano*, quel “edge of cultivation”) diramantisi all’interno della foresta e in uno di questi snodi cadono le coordinate che Percy Fawcett aveva lasciato indicate a indicare la posizione presunta e proposta di uno degli anelli mancanti rappresentato dalla perduta città di Z.

 


*Something hidden. Go and find it. Go and look behind the Ranges.
Something lost behind the Ranges. Lost and waiting for you. Go!

 


The Lost City of Z” è un film ad altezza d’uomo: si giunge da A a B attraverso navi, treni, cavalli, zattere/canoe e machete: nessuna ripresa dal punto di vista di dio (aerei, elicotteri, droni) verso l'abissale inferno del "deserto" verde smeraldo. 

* * * * ¼ 

 


Postilla. Tr’altre righe, ovvero: Percy Fawcett & gli altri (una bibliografia sterminata, mi limito a due autori che ho particolarmente amato in questi anni):
- Harry Thompson - “This Thing of Darkness” - 2005 (“Questa Creatura delle Tenebre”, Nutrimenti, 2006), incentrato sulla figura di Robert FitzRoy, il Capitano del brigantino Beagle, impegnato in svariate missioni di rilevamento cartografico in Sud America, dalle Falkland alle Galapagos, ospitante in uno di questi viaggi d’esplorazione militar-scientifica un giovin passeggero, tal Charles Darwin...
- Fredrik Sjöberg - “FlugFällan” - 2004 (“l’Arte di Collezionare Mosche”, IperBorea, 2015): su René Malaise ed Ester Blenda.
- Fredrik Sjöberg - “FlyktKonsten” - 2006 (“l’Arte della Fuga” - ma anche Rifuggire dall’Arte -, IperBorea, 2017): su Gunnar Widforss.
- Fredrik Sjöberg - “RussinKungen” - 2009 (“il Re dell’Uvetta”, IperBorea, 2016): su Gustav Eisen.
- Fredrik Sjöberg - “Varför Håller Man På?” - 2012 (“Perché Ci Ostiniamo”, IperBorea, 2018): su Anna Lindhagen e Rutger Sernander.
- Fredrik Sjöberg - “Mamma är Galen och Pappa är Full” - 2018 (“Mamma è Matta, Papà è Ubriaco”, IperBorea, 2020): su Anton Dich.     

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