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Civiltà perduta

Regia di James Gray vedi scheda film

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La recensione su Civiltà perduta

di scapigliato
8 stelle

La sfida alla natura, in tutte le sue varie sfumature – lo scontro, l’incontro, il confronto, il rifugio, la fuga, l’isolamento, la sopravvivenza – è da sempre, in arte, in letteratura e al cinema, il primo e grande tormento dell’uomo, egli stesso parte integrante del mondo naturale, animale evoluto, ma fortemente modificato, alterato, distanziato dalla primitività e dall’essenzialità della vita naturale. Questa frattura, raziocinio, filosofia, letteratura, amore, morale, principio di realtà, Ego, Es e SuperIo, o come la si voglia chiamare, ha provocato nella sua ferita una distanza tra uomo e natura, tra uomo e animale, che, nonostante le conquiste e i progressi perseguiti con coscienza dall’uomo stesso, resta sempre il cono d’ombra a cui l’essere umano ritorna appena può per interrogarsi sulla vita, sulla morte, sul mondo e il proprio ruolo nel mondo. Se l’animale è il primo referente simbolico nella rappresentazione dell’uomo, la wilderness è lo scenario preferito per i migliori e più riusciti affondi intellettuali che indagano l’uomo e il suo universo emotivo, storico e sociale.

Anche senza studi base di antropologia non è difficile accorgersi di come l’uomo interpreta il reale attraverso i suoi più primitivi segni: animali, piante, minerali e i famosi quattro elementi. Rintracciare nei primi vent’anni del terzo millennio il corpus più sostanzioso di film dedicati all’uomo e alla wilderness è un chiaro segnale della crisi in cui l’uomo si trova in piena epoca liquida. Il film di James Gray, che gira insolitamente in 35 mm e in formato 2.35:1 e che punta moltissimo sul profilmico grazie a una set decoration curata nel dettaglio, location non improvvisate nella Colombia del Nord – anche se non sono i luoghi reali delle esplorazioni raccontate – e l’ottima fotografia di Darius Khondji, è il manifesto di questo eterno ritorno a quel cono d’ombra misterioso dove l’uomo può trovare davvero se stesso. E il protagonista di queste esplorazioni è il maggiore Percy Fawcett, poi tenente colonnello, che al pari di altri celebri esploratori era drammaticamente attratto da quel cono d’ombra che già Joseph Conrad aveva fascinosamente descritto in Cuore di tenebra (1899).  

Fawcett, nel 1906, riceve la richiesta dalla Royal Geographical Society di mappare i confini tra Brasile e Bolivia per questioni inerenti la spartizione degli alberi da gomma. Durante la missione, a cui partecipa anche l’ex caporale britannico Henry Costin come aiutante esploratore, Fawcett incontra cocci di terracotta nel bel mezzo delle zone più remote del temuto “deserto verde” che appare così molto meno desertico di quel che sembrava e popolato fin dall’antichità. Tornati in Inghilterra, e non senza perdite umane, Fawcett riesce a farsi finanziare una seconda spedizione nel 1912. Sabotata dall’interno, la missione fallisce e tutti rimpatriano anche per combattere la Prima Guerra Mondiale. Nel 1925, tra finanziamenti privati e per conto di una Royal Geographical Society ricredutasi su Fawcett, l’esploratore riparte di nuovo per l’Amazzonia in compagnia del primogenito Jack. Non farà più ritorno.

The Lost City of Z è tratto dall’omonimo libro di David Grann che, all’epoca del film, è il più recente tra i ricercatori avventuratisi nella foresta pluviale alla ricerca della verità su Percy Fawcett. Va subito detto che la pellicola non trasporta sullo schermo pagina per pagina il resoconto di viaggio di Grann e se ne prende alcune libertà – per esempio, all’ultima spedizione partecipano Fawcett, il figlio Jack e il miglior amico di questi, tale Raleigh Rimmell, di cui non vi è traccia nel film. Il regista ne fa piuttosto un ibrido poetico, personalizzando la vicenda e dirottando la propria urgenza autoriale non tanto sull’avventura e il mito dell’esploratore disperso, quanto piuttosto sul fascino misterioso del non conosciuto e della mania ossessiva che s’impadronisce dell’uomo di fronte alla potenza dell’ignoto e della scoperta. Quasi un “Malick-narrativo” quindi, dove il racconto si snoda sì attraverso le peripezie avventurose dei protagonisti, tra attacchi di indios, piraña carnivori, tribù cannibali, giaguari melanici e serpenti velenosi, tra l’altro peripezie episodiche nell’economia finale della narrazione, ma un racconto che tende al filosofico grazie ad uno sguardo disarmante e contemplativo dell’uomo Fawcett su un mondo a lui sconosciuto.

L’arringa antiborghese e anticlericale con cui infiamma i limiti scientifici e sociali della Royal Geographical Society accusando di riflesso e per estensione l’hybris tutta occidentale alla base del colonialismo e della centralità del pensiero “bianco”, è la base concettuale e politica del suo nuovo ruolo nel mondo, forse più corrispondente al ruolo e al mondo del regista che a quello di Fawcett. Tant’è che in molti rivedono in Fawcett lo stesso James Gray, la cui ossessione per l’impossibile, ovvero la rincorsa a un cinema alto e spettacolare oggi perduto, quello dei ’60, ’70 e ‘80 per intenderci, è la stessa dell’esploratore per la fantomatica città perduta di Z, il tassello mancante per la definizione completa e totale del genere umano al di là di etnie e biotipi.   

Ad ogni modo, invettive e sottotesti metacinematografici a parte, i segmenti narrativi dedicati all’esplorazione abbandonano i moduli classici dell’avventura per proporre un’intrusione dell’uomo moderno all’interno di un territorio magico, inesplorato e misterioso in cui le certezze di una vita crollano di fronte all’imprevedibile e a ogni “nuova possibilità”. A conferma di questa intrusione quasi infantile nella magia del reale c’è una regia che utilizza il ritmo dello sguardo contemplativo, della gentilezza dei gesti,  dei lunghi primi piani e dei tanti silenzi, senza perdere di vista il piacere del racconto e della rappresentazione figurativa che vede il talentuoso Charlie Hunnam in uno dei suoi ruoli più riusciti. Misurato e controllato nel gesto, soprattutto nelle sequenze ambientate in Amazzonia, Hunnam dà vita a un uomo che utilizza la gentilezza e il dialogo, seppur non verbale, per allacciare intese, amicizie, affinità. L’esatto contrario di ciò che accadeva all’epoca delle vicende narrate con il colonialismo e di ciò che accade all’epoca della produzione del film con il rialzarsi arrogante di molti razzismi, nazionalismi, embarghi, muri, barriere, roghi e porti interdetti i rifugiati.

Mentre Robert Pattison è palesemente fuori parte, Hunnam ha dalla sua, oltre la plasticità armonica che il suo corpo veicola, una gentilezza e misurazione de gesto che vanno di pari passo alla passività e allo stupore del personaggio. Forse è lo stesso stupore del regista davanti al film perfetto da inseguire al costo di risultare anacronistico, fatto sta che la grandezza di Hunnam non sta solo nella sua presenza scenica, ma anche nella capacità attoriale di restituire un personaggio vigoroso e al tempo stesso totalmente incantato dal suo sogno, o meglio, ossessione.

Ma The Lost City of Z non è solo questo. Non è solo territorio per giochi metacinematografici, tribune politiche o semplice avventura, ma è anche e soprattutto lo stupore dell’uomo moderno davanti ai segreti e ai misteri della natura, da cui la consapevolezza del proprio limite su di essa. Anche se la pellicola suggerisce che Fawcett e il figlio Jack sono vivi e hanno trovato Z, grazie alla bussola che un brasiliano consegna alla Signora Fawcett e che era stata oggetto di una promessa tra Fawcett e il presidente delle Royal Geographical Society – dettaglio che dal libro di Grann sappiamo ha tutta un’altra storia e non certifica la scoperta di Z – la realtà dei fatti è ben diversa. Ciò che non cambia è l’attrazione magnetica ed irrinunciabile di Fawcett per quel luogo selvaggio e dimenticato da dio. Lo confermano, tra le tante altre testimonianze raccolte da Grann per il suo libro, alcune frasi dello stesso Fawcett scritte sul proprio taccuino, raccolte dal secondogenito Brian e riportate in Exploration Fawcett (Hutchinson, 1953): «Nel fondo del mio cuore sentii una voce chiamarmi. All’inizio ci facevo poco caso, ma quella continuò, fino a che non potei più ignorarla. Era la voce delle terre estreme, una voce che sapevo avrebbe fatto parte di me per sempre. Inesplicabilmente (e ciò mi sorprendeva) sapevo di amare quell’inferno. Il suo abbraccio diabolico mi aveva catturato e volevo vederlo ancora».

Il finale scelto da Gray, al netto dell’explicit tanto citato dai critici con il gioco di specchi e di doppi mentre la moglie di Fawcett scende le scale della Royal Geographical Society, in quella notte primigenia nel bel mezzo della giungla amazzonica, fatta di lumi accesi, corpi nudi e silenziosi, due bianchi, padre e figlio, che vengono accompagnati non si sa dove e che si perdono nell’oscurità e nell’amalgama ancestrale di figure, ombre e antiche nenie e suggestivo quanto ipnotico e sigilla in immagini la copula spiritica tra l’uomo e la sua ossessione, tra l’uomo e la wilderness.

Si discute molto sulla positiva inattualità del film di James Gray, sul suo azzeccato “fuori tempo massimo”, sul suo così tanto romantico essere sbagliato. Si evoca giustamente il Werner Herzog delle sfide titaniche alla natura di capolavori come Aguirre furore di dio (1972) e Fitzcarraldo (1982), e si accostano a The Lost City of Z titoli come Mission (Roland Joffé, 1986), Mosquito Coast (Peter Weir, 1986) e El abrazo de la serpiente (Ciro Guerra, 2015) per definirne maggiormente lo spirito, l’idea e l’urgenza autoriale. E difatti il film di Gray è un film classico e contemporaneo allo stesso tempo. Forse ha peccato di audacia, forse ha preferito Malick a Weir e sicuramente ha riadattato l’affascinante ricerca di David Grann alle proprie esigenze autoriali o a una più che comprensibile sintesi cinematografica, ma ciò non toglie che la sua regia, la materia narrativa e Charlie Hunnam , siano difficilmente contestabili. Oggettivamente eterni.

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