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Civiltà perduta

Regia di James Gray vedi scheda film

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La recensione su Civiltà perduta

di supadany
8 stelle

Per compiere grandi imprese occorrono qualità oltre la norma, incoscienza e la capacità di guardare al di là dei confini che delimitano la visione comune, usualmente circoscritta. Queste peculiarità appartengono al protagonista di Civiltà perduta così come al suo autore James Gray, rinomato interprete del noir (Little Odessa, The yards e I padroni della notte) che nell’ultima decade ha continuato ad ampliare la falcata, approdando al melò, per quanto (fortunatamente) contaminato (Two lovers e C’era una volta a New York), e infine, proprio con quest’opera, all’avventura.

Ovviamente, la sua integrità è pienamente conservata e la sua impresa è titanica, propria di chi ha tutto chiaro nella testa ed è disposto a qualunque sacrificio, come sei anni di lavoro e svariati contrattempi che avrebbero abbattuto un toro, per arrivare alla meta, che non significa per forza di cose vincere su tutto il fronte, ma conseguire il proprio obiettivo, per quanto quest’ultimo possa essere autolesionistico, per non dire letale.

Gran Bretagna nei primi anni del Novecento. Nonostante le sue capacità, per colpa di un incancellabile passato di famiglia, il maggiore Percy Fawcett (Charlie Hunnam) non riesce a far carriera, così che accetta un incarico per la mappatura di territori incontaminati, localizzati tra la Bolivia e il Brasile. Accompagnato da Henry Costin (Robert Pattinson), arriva ai confini di un nuovo mondo e ne rimane talmente affascinato da decidere di far ricorso a ogni sforzo per completare l’opera, nonostante ad attenderlo in Gran Bretagna ci siano l’affetto di sua moglie Nina (Sienna Miller) e una famiglia in continua espansione (che non può conoscere come un padre vorrebbe/dovrebbe).

Le sue missioni saranno molteplici, intervallate da un evento drammatico che fermò l’Europa intera: la Grande Guerra.

 

Charlie Hunnam

Civiltà perduta (2016): Charlie Hunnam

 

Dimenticatevi le avventure a rotta di collo di Steven Spielberg (Indiana Jones), semmai pensate al Werner Herzog di Fitzcarraldo e Aguirre furore di Dio ma con tappe diverse e meno follia, per lo meno più tangibile con mano, all’insegna del senno messo a repentaglio dalla fame e, soprattutto, da un’ossessione umanissima (la conoscenza).

James Gray riempie la sua opera, il parallelo tra la sua perseveranza e la missione di una vita di Fawcett è quanto mai prossima, dall’inizio alla fine.

Scandendo un processo a fasi, tra andate e ritorni, addii e ricongiungimenti, cavalca ellissi necessarie (non occorre ogni volta ripresentare i pezzi precedenti, i vari viaggi è come se fossero un tutt’uno), rendendo vivo lo spirito di esplorazione, mentre il fascino della (possibile) scoperta è quanto mai scardinante.

Tra uomo e natura, progresso e civiltà perdute, o meglio sconosciute, la composta eleganza delle vita occidentale e culture tutte da scoprire, l’arroganza dettata dal principio di superiorità insito nell’uomo bianco, verso i selvaggi ma anche le donne, Civiltà perduta trabocca, rendendo piena giustizia alla macchina dei sogni che è (dovrebbe essere) il cinema, oggigiorno sempre più ancorata in un porto sicuro, che è sinonimo di ripetitività.

Così, James Gray apre una vorticosa finestra sul passato e portali verso un futuro, di finzione e reale (un cinema che punta ad allargare i propri confini e un mondo che guarda avanti per la gioia di apprendere), che rimane una chimera.

Difatti, le tematiche presenti colmano oceani di vuoto e vengono chiarite senza eccessi, tra il (secondario) prestigio, le difficoltà fisiche e mentali che servono per arrivare al traguardo, la necessità di conoscenza che sopravanza il desiderio di conquista, lasciando alle spalle la sicurezza per trovare chissà cosa (con pericoli insediati ovunque), con il conseguente gusto di vedere qualcosa di immacolato, un avvicinamento alla morte per vedere meglio la vita, tutto questo sempre facendo ricorso a una dialettica che dosa le parole, rimanendo comunque chiarificatrice (non c’è niente di oscuro, mentre tanto è primordiale e qualcosa mistico).

 

Robert Pattinson

Civiltà perduta (2016): Robert Pattinson

 

In questo viaggio di centoquaranta minuti, oltre alla mano di un autore indomito che gestisce la materia senza scorciatoie, spiccano la fotografia di Darius Khondji, con una predilezione per le luci tenue (il lavoro negli interni è talmente eloquente che si commenta da solo, mentre per il resto, l’alba e i tramonti lo assecondano), l’abnegazione del protagonista Charlie Hunnam, quanto mai distante dai ruoli da macho (e pensare che avrebbe dovuto esserci Brad Pitt, comunque da stimare per aver assunto il ruolo di produttore), e la volontà di un invecchiato e imbruttito Robert Pattinson, concentrato in un cinema d’impegno - tra i cronenberghiani Cosmopolis e Maps to the stars, oltre a Good time, presente in concorso a Cannes 2017 – sempre più di confine, come se sentisse la necessità di scrostarsi di dosso le scorie di un’immagine plastifica, dura a morire (The twilight saga).

Per completare l’opera, proprio nella parte finale James Gray regala due virtuosismi eccelsi (occhio a un treno in movimento e all’ultima uscita di scena di Nina), degne incisioni che chiudono l’opera di un sognatore disincantato, che ha remato controvento, ben sapendo il costo degli anni perduti su una missione di vita (per un cineasta, ogni film lo è), esattamente come il suo protagonista.

Rigoroso, ostinato e fecondo (è raro trovare opere che accettino questi tre termini). 

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