Regia di Carlo Lizzani vedi scheda film
L'inizio con taglio documentaristico, dopo un po' pesa. Si sente la mancanza della narrazione romanzesca. Ma quando passati i primi venti minuti di film si entra nel racconto, allora è un susseguirsi di caratteri incredibili, di grandi attori ognuno al meglio di sè, grande montaggio, una grande sceneggiatura arida ed incisiva. Una rosa di attori-simbolo che oggi è il marchio cult del film: un'immenso Gian Maria Volontè, un'ispirato Don Backy e il sempre bravo Ray Lovelock, come banditi; sulle loro tracce un'impotente ma deciso commissario interpretato da Tomàs Milian: uno dei tre o quattro attori più autoriali che si avesse in Italia (oltre a lui si possono solo annoverare lo stesso Volontè, Kinski e Montagnani, senza contare i 4 moschiettieri Gassman, Sordi, Manfredi, Mastroianni). Ma con questi grandi quattro nomi troviamo Margaret Lee, Piero Mazzarella, Peter Martell e in una fugacissima apparizzione anche Ugo Bologna.
Come già detto, il taglio documentarista, che da spessore e lirismo alla storia romanzata dei quattro banditi, all'inizio è solo indice di didascalismo sterile che più di tanto non dice nulla. Ventidue minuti son troppi, forse anche all'epoca. Ma la crudezza, lo stile asciutto e secco con cui Lizzani ha diretto, e soprattutto montato il film (o almeno indirizzato il montaggio), danno al film stesso lo status di precursore di un genere, che in breve, avrebbe soppiantato lo Spaghetti-Western. "Banditi a Milano" è l'atto di nascita del poliziesco all'italiana. Anche se non aveva ancora rivisitato il genere poliziesco come faranno poi i Lenzi, i Martino, i Guerrieri, i Dallamano e i Girolami, Lizzani azzecca l'estetica e la poetica delle crude storie metropolitane, ereditando dal grandioso e immortale Spaghetti-W, nel quale pure lavorò, i caratteri più estremi e violenti, prediligendo il realismo nudo e crudo alle parabole moraleggianti e buoniste di tanta cultura dominante.
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