Regia di René Clair vedi scheda film
Se è vero che la fantasia e la libertà di esprimerla non ha patria,talvolta si corre il rischio di piantarvi la bandiera nel primo luogo che dia l’impressione di essere incontaminato e che offra ospitalità.
René Clair questo rischio lo abbracciava deliberatamente,poiché la sua intenzione di raggruppare di rendere ossatura resistente tutta l’aneddotica che da sempre ispirava il suo cinema spesso si frangeva,come in questo caso,a contatto con l’effettiva plausibilità della convivenza tra linguaggio e ambientazione.
Per pochi registi come per lui valeva la teoria di Jean Renoir secondo la quale un regista dirige sempre un unico film lungo tutta la sua carriera,anche quando lo specifico vocabolario del suo percorso cinematografico affiancato ad uno che ha pretese completamente diverse crea uno squilibrio perdonabile ma difficile da ignorare.
Nella sua non lunga trasferta americana Clair resta un regista assolutamente parigino,con la reticenza tutta transalpina che poteva nutrire nei confronti di meccanismo che viveva(e vive,nonostante tutto) su una perentoria dell’intrattenimento,e che produce momenti felici come improvvise forzature.
Rivisto oggi,il cinema di Clair,o almeno buona parte di esso,appare imparentato,anche se lontanamente,con l’eterna rivisitazione dell’infanzia di Charlie Chaplin,distante da questo per una maggiore spontaneità e una meno vistosa,ma preziosa,tecnica,poiché Clair non insiste nel volersi presentare come un demiurgo bensì come un narratore in grado di ridare luce,smalto e contenuta golosità al bozzetto esteso a prosa più dettagliata;immalinconendosi,magari con l’andar del tempo e il procedere dell’età,come dimostrano titoli dolcemente introversi quali Grandi manovre o Quartiere dei lillà.
Mentre Chaplin presentava attraverso il personaggio di Charlot il bambino con la faccia adulta che senza ottenere nulla per sé lottava per difendere il diritto a prolungare l’infanzia,evitandole l’incontro con la paura del vivere,con uno stile più scopertamente elaborato e non di rado narcisista,saccheggiando gli episodi di un’infanzia mancata e sofferta;Clair ridisegnava l’intera epoca della propria infanzia(la sempre presente Belle Epoque) non attraverso una prosa immaginifica ,ma mettendo insieme in maniera ideali le frasi udite qua e là e le immagini recuperate secondo la concessione della memoria del fanciullo:non è esplicitamente messo al centro dell’attenzione il bambino in sé stesso,ma la percezione inalterata che il suo sguardo offre,come se Clair stesse parlando della storia d’amore da cui egli stesso proviene.
Questo tipo di operazione,svincolato dai suoi luoghi più familiari,intenerisce come per i film girati in patria ma,nella meccanicità dell’industria hollywoodiana,appare meno persuasiva e in alcuni momenti,spiace dirlo,evanescente fino all’inconsistenza.
Di sicuro,Clair non doveva sentirsi a proprio agio in una macchina produttiva che del dialogo,quindi di una esplicita teatralità,la ragione stessa dello spettacolo, denunciando spesso la propria perplessità per l’avvento del sonoro,poiché il suo cinema ha sempre mantenuto una componente pirotecnica tipica del cinema muto e una parte di antinaturalismo negli ambienti e nei personaggi,spesso vicini alla comunicativa del mino e privi di consistenza psicologica oggettiva.
Non ne hanno il personaggio di Powell né quello di Darnell,come non ne hanno quello di Jack Oakie né quello di Edgar Kennedy(se,chiaramente,per consistenza non intendiamo un’immediata,schietta adesione alla simpatia senza bisogno di interpretazione che suscitano),anche perché non necessitano di una profonda identità per essere seguiti e per acquistare valore ai nostri occhi poiché l’originalità della storia è già di per sé sufficiente a destare interesse.
L’intenzione di Clair era quella di far combaciare in una continua soluzione visiva l’animata giovinezza del balletto in cui si incontrano le lacrime frettolosamente censurate della dame e i sorrisi prepotenti dei cavalieri,evocando il linguaggio di un costante idillio,non solo amoroso,esonerato,almeno in apparenza,dalla prova ardua della sofferenza e della delusione,e vivendo il quale troviamo la spiegazioni dei nostri che non svaniscono nemmeno quando ci si risveglia,perché egli ci offre il luogo ideale in tutti possiamo sognare nello stesso modo.
Pur sapendo che questo,in realtà,non è possibile.
La cifra delle sua regia era quella di una leggerezza che mascherava lo scherzo del terrore e la lieve increspatura dell’angoscia.
Non poteva avere l’eleganza e la sfrontatezza guascone di Gérard Philipe,eppure riusciva a suggerire la vitalità virile tanta cara a Clair che sfocia in una simpatia un po’ fanfarona.
Epitome americana della dama con le mani occupate nel ricamo che si incontra nei film di Clair alla quale Darnell regale la luminosità affranta di un angelo vissuto in un ricordo notturno.
Incrocio ideale,il meglio riuscito del film,fra un carattere logorroicamente americano e francese,di forte presa e vigore nel ridisegnare il personaggio dell’inoffensivo ciarlatano.
La soavità vetusta del volto e del personaggio sono l’esempio attraverso il quale Clair ricorda l’importanza della lezione della saggezza e della fluidità eterna dei principi.
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