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Jackie

Regia di Pablo Larrain vedi scheda film

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La recensione su Jackie

di ed wood
5 stelle

E alla fine il passo falso di Don Pablo è arrivato. Era nell’aria. Va bene il talento, la lucidità e l’energia che distingue il giovane cineasta cileno da tanti suoi coetanei, ma era francamente impensabile sperare che questo “Jackie” potesse essere allo stesso livello di “Neruda”, ossia un quasi-capolavoro. Come si può pretendere di realizzare in contemporanea due film di tale complessità e spessore tematico-stilistico! Un film, “Neruda”, che fa i conti col massimo poeta cileno, con la Storia di quel Paese e con altri impegnativi discorsi inerenti al rapporto fra l’icona pubblica e la figura privata, fra il Potere e la sua rappresentazione mediatica. Un altro, “Jackie”, che tenta di fare la stessa cosa, spostando lo sguardo sugli USA e sulla vedova di JFK. Insomma, già che c’eravamo, al buon Larrain si poteva chiedere di realizzare, ovviamente in contemporanea a “Neruda” e “Jackie”, anche il remake del “Divo” di Sorrentino!

 

Insomma, il regista ha fatto bingo quando di è trattato di parlare del suo Paese, già brillantemente raccontato con la trilogia pinochet-iana con cui si è presentato nello scorso decennio; ma al confronto con gli USA complottari e paranoici della Guerra Fredda, ha fatto cilecca. Ha forse peccato di presunzione nel voler accettare di dirigere una sceneggiatura non sua. Ah ecco, la sceneggiatura. Imputata numero uno dell’esito fallimentare di “Jackie”. Un garbuglio di parole ermetiche, dialoghi allusivi, piani temporali sconquassati, andirivieni fra un luogo e l’altro; un’indigesta marmellata dove il discorso sulla menzogna mediatica cozza contro quello dell’elaborazione del lutto, dove lo svisceramento del protagonismo di Jackie trova impervie ed irrisolte digressioni in cui si tirano in ballo i massimi sistemi, dal peso della Storia a quello della religione, dalla burocrazia presidenziale alle scelte in termini di arredamento per la Casa Bianca, senza mai “venirne ad una”.

 

In tutto questo, Larrain si trova quasi più spaesato della sua protagonista. Lo script di Oppenheim è come un enorme edificio in cui tutte le porte e le finestre sono inagibili: Larrain ci gira attorno, cerca accessi liberi, prova qualche volta con lo scasso, ma alla fine non riesce proprio ad entrare. E quando un regista non comprende il copione, quando non lo sente suo, non può fare altro che guardarlo come un oggetto misterioso. E’ come non riuscire ad entrare nel clima di una festa o nel ritmo di una partita. Senza simbiosi con il testo, la regia brancola nel buio. E infatti “Jackie” è un film senza ispirazione, senza momenti di grande regia. Larrain prova comunque ad applicare la sua idea di un cinema dal ritmo franto, dal tono decantato, dall’umore misto, con l’uso di quel montaggio “dialettico” che ha dato risultati enormi in “Neruda”, in termini di ritmo e brillantezza. Qui invece di ritmo non ce n’è. Di immagini potenti nemmeno.

 

Si apprezzano, a fatica, alcune idee: Jackie e il giornalista viscido ripresi frontalmente in controcampo, a sottolineare l’idea di un duello. Il viso di Jackie sempre al centro della scena, poiché è lei la vera protagonista del funerale di suo marito. La mdp a mano sporadica a sottolinearne lo spaesamento. Anche i momenti shock del cervello di JFK spappolato sul suo abito rosa hanno un loro perché. Quello che invece non si può accettare, specialmente da un autore di questa statura, sono derive come il pre-finale mistico-malickiano, l’utilizzo pretestuoso di finte immagini di repertorio (un inutile virtuosismo chiesto al direttore della fotografia), l’insistenza sul dolore della donna. Per il resto, prevale la maniera, decorosa ma sterile. Unica ancora di salvezza quando un regista non trova alcun modo di “imbarcarsi” sul testo.

 

In definitiva, è stata una occasione persa. Soprattutto, se si pensa a quanto “Jackie” avrebbe potuto darci come riflessione sul presente, sull’epoca della post-verità e su una Storia che “solo perché è stata scritta, non significa che sia accaduta veramente”. Un discorso che non prende mai il volo, inceppandosi subito nello shock e nelle lacrime della protagonista. Naufraga malamente anche la meditazione sul ripetersi della Storia, coi Kennedy auto-rappresentatisi come eredi frustrati e delusi del grande Lincoln: un aspetto che avrebbe dovuto essere sostenuto dall’analisi sull’oggettistica della Casa Bianca, ma che non trova il giusto sviluppo. E così, va da sé, restano fini a se stesse anche le immagini di Jackie appena insediata, novella imbarazzata first lady. Ci rimangono una brava Portman e il rimpianto per il film che avrebbe potuto essere.

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