Regia di Tim Sutton vedi scheda film
Accade una notte. Ma è sempre notte. Una notte oscura.
Sforbiciate di vita giovanile. Frammenti di manie strappate ai selfie, senza cura, come si usa oggi. Un lampo e via. Questo film cavalca l’improvvisazione con il gusto indagatore che è l’immagine speculare dell’esibizionismo spiccio. È il guardare che fa da contraltare al mettersi in mostra, al disagio che si tinge dei colori follemente accesi di un’allucinazione e che diventa l’autoritratto pop di un solitario eroismo. Queste inquadrature di ragazzi inquieti non fanno storia. Sono istanti passeggeri colti di sfuggita, privi di senso compiuto, acerbi senza costrutto. Un effetto forse voluto, quale omaggio a questa società inconcludente, infarcita di suggestioni fatte per durare quanto un tweet, che non cercano la continuità di un filo logico, né la coerenza di una strategia. Magari la sostanza è davvero troppo sfilacciata per farne un racconto degno di tal nome. Resta da chiedersi se valga la pena insistere, per l’intera durata di un film, con questa frammentazione ostentatamente priva di stile, ribelle ad ogni inquadramento narrativo, chiusa nei propri cortocircuiti, persa in un vagabondaggio autoreferenziale che parla di un’emarginazione impossibile da classificare. Solo dopo molto tempo l’immagine disarticolata, dai contorni irregolari, inizia a sovrapporsi al vago ricordo di un fatto di cronaca, di quelli che colpiscono per la loro esplosiva assurdità, e che, nel grigiore della normalità, si inseriscono con le tinte sanguinolente del mito fantastico, della volontà sovrumana di superare l’ovvio per far trionfare i superpoteri di un fumetto. A irrompere sulla scena è l’incubo divenuto realtà al suono di un grido liberatorio. Il gioco di parole contenuto nella notte oscura del titolo non è solo un’allusione al tragico evento che, qualche anno fa, ha funestato una tranquilla serata di divertimento. È anche un riferimento al tunnel illuminato di luci al neon, che si potrebbe scambiare per la visione del giorno, e che racchiude le esistenze di tanti ragazzi illusi di essere presenti al mondo, di partecipare attivamente alla sua gioia, mentre, invece, sono immersi nel buio di un gioco che li isola, voltando le spalle alla possibilità di comunicare, di amare, di essere davvero qualcuno per sé e per gli altri. Di fronte ai loro coetanei non fanno altro che mascherarsi, tingendosi i capelli, indossando l’uniforme del gruppo, o anche semplicemente offrendosi nudi all’obiettivo di uno smartphone. Ma la recita non sta insieme, perché i ruoli sono incapsulati nelle rispettive individuali paranoie. Lo spettacolo è uno sfarfallio di pezzi sparsi. Come quando si spara nel mucchio, non per distruggere, ma per far deflagrare la propria frustrazione in un macabro volo di coriandoli di carne.
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