Regia di Michael Cimino vedi scheda film
Cervi ed uomini nel mirino. Un colpo solo che decide destini, ribalta vite, lascia scie di segreti inconfessabili. Non c’è semplicità nelle apparentemente piane metafore de Il cacciatore: Cimino dipinge un affresco da umanista/entomologo, dispiega l’arsenale di guerra del sentimento, avendo cura di raffreddarlo dopo averlo urlato a squarciagola, raffigura un’epopea: quella della generazione del Vietnam e di un intero Stato, alle prese con la sua faccia più quietamente truce, annaspante tra le spire dell’incertezza, in cerca di un complicato approdo sulle sponde del moralismo, dalla memoria forte eppure piegata alla necessità di dimenticare. Ogni singolo fotogramma è impregnato del senso della fine, ogni volto, ogni espressione è figlio degli anni ’70, di quella guerra stupida, bastarda, vigliacca che interagì con i caratteri, attraendoli a sé fino a modificarli. Uomini forti, uomini deboli, donne che aspettano, amori che nascono già precari, amicizie che si cementano nel dolore e col dolore convivranno sempre, ombra riflessa negli specchi di mille case, nelle ciminiere fumose delle fabbriche, negli occhi di un cervo spauriti da una inaspettata salvezza.
Ci sono state decine, forse centinaia, di film sul Vietnam. Film che spingevano forte il pedale dell’orrore, anche e soprattutto visivo. Opere di grandissimi registi, mausolei inquietanti e potenti (Apocalypse Now su tutti, ovviamente), poesie antimilitariste, reportage sul dopo, sulla rarefazione di quel dolore, sulla persistenza del trauma. Il cacciatore è tutto questo ed è molto di più. È film che ha il coraggio di dividersi, atomizzarsi, di rivoluzionare la stessa sintassi filmica segmentandola in parti (attesa, andata, ritorno), ognuna delle quali non potrebbe vivere di vita propria, il Vietnam quale filo rosso che unisce e pervade null’altro che la vita (il cazzeggio dei bar, la caccia, una festa di matrimonio, e poi la paura, l’amaro ritorno a casa, il riandare sui luoghi della sofferenza al fine di stemperare, silenziare, quell’angoscia che invece è per sempre), il Vietnam quale incancellabile esperienza, anche per chi non l’ha vissuta, finendo tuttavia a macerarsi nei sensi di colpa. Il Vietnam, infine e non da ultimo, quale spinterogeno e motore di un ottimismo che travalica il sentire personale; la voglia di andare avanti, ricordare, interiorizzare, metabolizzare. God bless America, “a Nick”. Sembra quasi di vederli sorridere, quegli amici riuniti per la veglia funebre. Sorridere perché vogliono farlo. E ci riusciranno, con i timpani fracassati o ovattati, le mani che tremano, le gambe che provano a camminare da sole. Sorridere perché devono farlo.
FESTE. Chiunque abbia vissuto un Carnevale da adulto, al riparo dalle facili suggestioni dei colori, sa quanta tristezza e solitudine una festa possa nascondere. Il matrimonio è un rito di passaggio (come la guerra, l’invio al fronte), l’ingresso consapevole e voluto nell’età adulta (come lo sparare ad un Vietcong, in fondo: riaffermare un sé autonomo, seppure in compagnia di una donna o di un commilitone), il lasciarsi alle spalle schiere informi di pensieri leggeri, adolescenti (non accorgersi di una goccia che cade, infrangere il rito che propizia la buona sorte, dunque ritrovarsi in una palude infestata da topi). Cimino non fa altro che filmare, dilatare le attese, montare le angosce. Il giorno prima di un avvenimento spartiacque non può mai essere felice fino in fondo: come quando da bambino si fa un ultimo bagno prima del ritorno a scuola e l’acqua sembra incredibilmente più fredda, distante, quasi nemica, così gli amici russo/americani (bastardi per definizione, carne da macello della politica, ibrido di positività americana e sentimentalismi dell’Est) provano a divertirsi. Giocano, si ubriacano, cantano. I love you baby presto cederà il posto ad una intima sonata per pianoforte e tristezza. Si guardano gli amici, sanno già tutto, sanno quale sarà il loro destino, perché c’è un determinismo delle cose che non si piega: il moralista “frocetto” (perché innamorato di una sola donna, e questo forse è l’amore, nient’altro) che si salverà, forte della sua corazza; il debole che perderà (ideale di) donna e capacità di deambulare alla ricerca di altre possibilità di vita; il subalterno, il fratello minore cui volere incondizionatamente bene (se non ci sei tu io non vado a caccia con nessuno, gli viene detto) che si perde nel sogno di una facile rivincita, di un comodo solipsismo che banchetti soltanto con la morte. E nella sala si balla, ultimo giorno di vacanza, estrema versione del sogno americano nato prematuro e malamente ossigenato.
GUERRE E ROULETTE. La vita ha sempre un colpo in canna a noi destinato. E noi ci giochiamo, perché senza giocare moriremmo comunque. La vita è guerra, la differenza sta nel modo con il quale si decide di combatterla. Cimino occupa una nemmeno troppo lunga parte centrale del film a manifestare l’orrore. Che non è soltanto il napalm, l’odio, le vittime sul campo. È anche il prendere coscienza di quanto la nostra devastata psiche (che la guerra ha devastato ma, in parte, anche ciò che l’ha preceduta: i sogni infranti, il duro lavoro, le serate che non passano mai, l’amicizia e l’amore che talvolta fanno a pugni tra loro) sappia lasciarsi avvolgere dal fascino che quell’orrore sprigiona. Del tutto inutili e pretestuose le polemiche sulla indole reazionaria di quelle celebri scene: al regista interessa mostrare come e quanto l’abiezione ci abiti, come, forse, attenda soltanto il proprio terremo di coltura per venire fuori, rigogliosa. Un colpo solo: ce n’è uno per ciascuno di noi, qualcuno avrà in sorte quello che fa più male degli altri. Ma è solo questione statistica.
RITORNI. E poi il Cimino intimista, che lascia decantare le passioni e le distruzioni dell’inconscio, per poi, come in un accidentato percorso di montagne russe, ripiombare in un prefinale febbrile e infine aprire la porta ad un cauto ottimismo della volontà, ad una soffice speranza della ragione e della memoria. My home sweet home. Mike ritorna, Mike è latore di segreti, di rabbia buia e silenziosa, di sentimenti che il tempo non ha modificato. Mike è deus ex machina impotente, colui che deve ricondurre all’ovile le pecorelle smarrite, il protagonista e il tessitore di una (im)probabile vita degli altri. Ma in mezzo c’è stato il Vietnam, tragedia collettiva che impregna i sentimenti individuali. Ritorno a casa e ritorno sulle montagne, con possibilità di scegliere. In attesa di compiere l’impresa impossibile, the deer hunter spara in alto. Si stupisce del suo stesso stupore; è diventato come il soldato de La guerra di Piero: può dare la morte, opta per la vita. Il cervo se ne va, è un Vietcong graziato. Anche Nick, lontano, può scegliere se dare (darsi) la morte o proseguire nella ronda dei ritorni. E sceglie di diventare impietoso cacciatore di se stesso.
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