Regia di Michael Cimino vedi scheda film
Ci sono ferite che non si rimarginano facilmente. Restano impresse sul corpo come cicatrici senza pietà. Una di queste, almeno per l’America, è il Vietnam. Ogni guerra è sporca, ma forse quella la fu un po’ di più. Perché ha strangolato l’aspirazione di una generazione ad una vita normale. Ha estirpato loro quel necessario quanto illusorio American Dream. Certo, quando si cresce in condizioni di così evidente precarietà (immigrati, proletari…), l’American Dream è più che mai un sogno: è l’evanescenza di un fumo che si aggira sui capi di una manciata di ragazzi: cacciatori un po’ per gioco e un po’ per rabbia, per sfogare la repressione esistenziale, Mike, Nick e Steven sono i figli più umili del Grande Paese, dimenticati nella distribuzione del bene, che forse non prenderanno mai al piano giusto quel fantomatico ascensore sociale. Che partano per il fronte, allora, per difendere la Patria: se non loro, chi?
Cimino non si limita ad una narrazione sterile, ma rappresenta quel che successe prima l’Evento funesto, va alla ricerca delle cause delle conseguenze. Strutturando l’opera (non è semplicemente un film di tre ore: è un romanzo per immagini che porta con sé il valore mitologico dell’èpos declinato sui territori di Edgar Lee Masters) in tre lunghi capitoli (il prima, il cosa, quel che resta), Cimino celebra la rurale atmosfera di un’America estranea ma tradizionalista (l’ortodossia rigorosa ma avulsa dalla convenzionalità statunitense del rito nuziale; la fabbrica; la lunga sequenza del ballo matrimoniale) che si ritrova a dover fare i conti con la prima prova della maturità (la tremenda roulette russa; le gabbie acquatiche; la guerra che porta all’insania) per poi cercare di tornare alla Vita, alle origini di sé stessi. Non tutti ritorneranno alla casa del padre, molti sceglieranno di ucciderlo – il padre – attraverso il ricordo della propria anima – ma non solo – e il tentativo di sfuggire al suo sguardo. Il padre non è solo il Paese, ma anche la comunità.
Si potrebbe dire che il capitolo centrale – fondamentale? – de Il cacciatore racconti quel che Un mercoledì da leoni non ebbe il coraggio di narrare (o forse a Millius non interessava raccontare…): con quel meraviglioso film di due anni prima si possono trovare analogie e differenze, assonanze e simmetrie (non solo nel trio di protagonisti, ma anche nelle rispettive vicende personali a contatto con la maturità), ma è una tendenza del cinema americano degli anni settanta che ringhia furiosa. Specialmente il cinema americano di quel decennio cerca di levare alto il proprio grido disperato nell’assistere, tutto sommato inevitabilmente inerme, al troppo dolore che si andava diffondendo. Un altro film che si collega trasversalmente a Il cacciatore è American Graffiti, che sembra riportare addirittura quel che succede prima del prima ciminiano – mentre quel-che-resta può essere associato alle allucinate visioni del reale del Travis di Taxi Driver.
C’è sempre un gruppo di amici al centro, ed ognuno incarna un diverso stato d’animo in proiezione del contesto storico del Paese: se Mike è l’apparente vincente che torna a casa medagliato ma tormentato e Steven è l’apparente sconfitto che, alla fine, reagisce a sé stesso riuscendo a varcare la soglia di casa, è Nick il vero perno della storia, l’anima più tragica e sofferta del coro. Ed è lancinante il dolore che si prova nel vedere imbelli la sua discesa agli inferi, l’irrecuperabile ineluttabilità della malattia mentale dell’odio verso di sé. C’è la sequenza più terribile di tutto il cinema americano degli anni settanta: la ricerca di Nick da parte di Mike, la scoperta di una nuova roulette russa, il tentativo di strapparlo ad essa, il dialogo tra i due, il colpo solo… Non se ne esce sereni da una scena del genere, che spiazza senza ritegno e spazza via anni e anni di estetica del dolore spiaccicando di fronte agli occhi il duro, crudele realismo della morte. Anche questa è una caccia, ma finisce male, il colpo è sempre uno in canna, e la scommessa si sostituisce al destino.
Cimino riesce a narrare con toni omerici (almeno di sbieco l’incontro tra Nick (indimenticabile Walken) e Mike (immenso De Niro) evoca alla lontana Achille e Patroclo, o anche le dinamiche del ritorno a casa straziato di Ulisse) una storia di echi classicheggianti descritta con la rabbia con cui Bruce Springsteen urlava Born In The U.S.A. e la sofferenza struggente con cui Vilmos Zsigmond colora la tersa afflizione dell’immagine. Melodramma decantato sullo sfondo di una guerra che è corollario e al contempo punto focale, alla ricerca del tempo perduto, dilatato con il tono del romanzo d’appendice, con un’atmosfera ferocemente d’epoca, è un passato prossimo che si vuole tramutare in remoto: ma non ci si riesce perché le ferite fanno ancora male, e leccarle non è sempre conveniente. Un film che scava in profondità con lucidità, coscienza, paura. Il finale si rivolge al futuro: ahimè, fino a che punto migliore di questo presente, chissà. God Bless America, se può, se c’è.
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