Regia di Vittorio De Sica vedi scheda film
Voglio un mondo dove buongiorno voglia davvero dire buongiorno!
Nato sotto un cavolo quando la madre, ormai anziana, aveva abbandonato ogni speranza di maternità, Totò cresce fra giochi, sorrisi e tabelline.
La morte della madre lo porta alla esperienza dell'orfanatrofio, da cui però esce, se possibile, ancora più sorridente e ottimista di quando ne era entrato.
Senza lavoro e senza denari, con poche cose nella valigia che una sera gli viene anche rubata, Totò si inserisce in una comunità di vagabondi e diseredati, immiseriti dalla recente guerra, che occupa abusivamente un terreno di proprietà privata alle porte di Milano e si è installata in una sorta di baraccopoli. Subito il suo buon umore e il suo ottimismo danno nuovo impulso a quella comunità che cerca di trovare un po' di felicità (tranne il personaggio astioso intepretato da Paolo Stoppa) nonostante le miserrime condizioni di vita.
Il canto "ci basta una capanna per vivere e dormir" risuona come un inno ad accontentarsi del poco che si ha sul piano materiale, ma del tanto che si ottiene in termini di relazioni personali quando ci si aiuta a vicenda.
Totò trova persino l'amore di Edvige, contraccambiato.
Ma quando il proprietario del terreno decide di riappropriarsene nonostante le rassicurazioni offerte (cinque sono le dita di tutte le mani: siamo tutti uguali), Totò dovrà cercare di raffreddare la voglia di arrivare allo scontro fisico di alcuni del gruppo.
A questo punto, solo un aiuto soprannaturale potrà capovolgere la situazione...
L'accoppiata Zavattini-De Sica produce un capolavoro che però fu rivalutato solo molto tempo dopo la sua uscita.
Ancora oggi le scorie delle dispute di allora ci sono anche su questo sito, allorché il genere del film viene definito "fantasy", mentre invece - come giustamente afferma Ed Wood nella sua recensione (//www.filmtv.it/film/8394/miracolo-a-milano/recensioni/837648/#rfr:film-8394), siamo di fronte alla "apoteosi, più che sintesi, di neorealismo italiano, realismo poetico francese, dada/surrealismo, con rimandi a Frank Capra e tracce di formalismo sovietico nelle sequenze più apertamente politiche".
Certo la scena finale è certamente fantastica oppure semplicemente onirica: la sua portata arriva 30 anni dopo direttamente a Spielberg e alla scena delle biciclette in ET, che ora è diventato il logo della produzione del Regista.
Ma il contenuto del film è in fondo un (riuscito) tentativo di portare lo stile neorealista all'interno di una moderna fiaba con evidenti riferimenti anche al circo, al burlesque fino ai cartoni animati.
Certo quello che stride con la produzione neorealista è il budget della produzione che, a causa degli effetti speciali (gli angeli in trasparenza e la scena delle scope sul Duomo di Milano) affidati ad una ditta americana, raggiunse la mirabolante cifra di 180 milioni di lire di allora (quando per Ladri di biciclette ne era bastato un terzo).
Ma il messaggio profondamente radicato nel sociale è tanto forte che è valido ancora oggi, anche con scenari apparentamente così diversi.
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