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Miracolo a Milano

Regia di Vittorio De Sica vedi scheda film

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La recensione su Miracolo a Milano

di Antisistema
9 stelle

Decisamente anomalo Miracolo a Milano (1951), nell’unire due elementi agli antipodi; il neorealismo con gli stilemi della fiaba (C’era una volta…), il risultato fu Palma d’Oro a Cannes, ma l’opera venne largamente incompresa dai critici di ogni colore politico in Italia.
Troppo ecumenica e consolatoria la visione della povertà data da De Sica, secondo i comunisti, quanto eccessivamente manicheo nello schematismo poveri = buoni e ricchi = cattivi secondo i democristiani, venendo duramente contestata anche da Luchino Visconti, per via della fortissima componente sentimentale, che a suo giudizio, sviava da ogni problema della realtà.
Per comprendere Miracolo a Milano, non si può non focalizzarsi su Cesare Zavattini, essendo l’opera un esperimento suo, prima ancora che di Vittorio De Sica.
Il neorealismo come detto in varie puntate di questo ciclo, non fu né un manifesto e né un movimento codificato, essendo le sue caratteristiche dedotte per lo più a-posteriori, nel congresso del cinema neorealista del 1953, quando la corrente era oramai in fase di esaurimento.
Volendo trovare un ideologo, Zavattini, sicuramente fu la figura che più facilmente si può indentificare come la mente “programmatica” di tale movimento, cercando di traslare le sue idee letterarie, sul grande schermo, strumento più indicato per l’affermazione del concetto neorealista.
Non è un caso che Miracolo a Milano risulta tratto da un’opera dello stesso Zavattini, Totò il Buono, pubblicato a puntate in rivista nel 1942, che però prima di divenire romanzo, era nato nella mente di scrittore proprio come soggetto per un film – scritto a quattro mani con Antonio De Curtis, meglio conosciuto da tutti come Totò -, poi concretizzatasi solamente ad inizio anni 50’, tramite copiose risorse finanziarie dello stesso De Sica, che evidentemente credeva molto nel progetto, tanto da spendere il triplo del budget rispetto a Ladri di Biciclette, causa ricostruzioni in studios articolate e soprattutto i costosi effetti speciali richiesti (il noto finale con le scope e lo “spirito” dell’anziana Lolotta su tutti), tanto che fu necessario chiamare un team americano per metterli a punto.
Raccontare l’Italia post-bellica, con toni fiabeschi leggeri ed allegri, senza mai negare il contesto squallido in cui vivono Totò (il semiprofessionista Francesco Golisano) ed i suoi amici barboni senza tetto alla periferia di Milano; la sfida di De Sica è ardua, ma ha voglia di sperimentare nuove strade, allontanandosi dall’estremo realismo quotidiano di Sciuscià (1946) e di Ladri di Biciclette (1948), che gli fruttarono due oscar miglior film straniero.
Totò cresciuto dall’anziana contadina Lolotta (Emma Gramatica), riceve dalla madre adottiva, la dovuta istruzione ed educazione, ma soprattutto una spiccata propensione alla bontà e all’immaginazione, che dalla miseria della realtà, riesce a trovare tramite tale potere, il modo di avere sempre un atteggiamento positivo nei confronti della vita, nonostante gli avvenimenti negativi, le violenze e l’ostilità dei padroni borghesi, nei confronti degli ultimi.

 

Francesco Golisano, Brunella Bovo

Miracolo a Milano (1951): Francesco Golisano, Brunella Bovo


“I poveri disturbano”, doveva essere originariamente il titolo del film, che venne modificato dal regista solo dopo insistenze ripetute dai piani alti, a causa del forte clima di ostilità ruotante attorno al film, già da prima della sua uscita.
La povertà fa paura, spaventa il cosiddetto borghese facente parte del “ceto medio”, categoria vaga quanto indefinita, a cui ogni persona non ricca, quantomeno aspira a farne parte, pensando che facendone parte, abbia risolto ogni problema.
Anelare al “ceto medio” è l’obiettivo ossessivo di ogni italiano, visto l’uso ossessivo fattane da politici e mass media di tale espressione; un concetto rassicurante, se siamo parte del “ceto medio”, non abbiamo problemi di sorta, al di sotto di esso c’è la povertà, un concetto oscuro, pauroso e siccome terrorizza, essa viene vista con estremo fastidio, se non rimossa totalmente dall’esistenza.
Eppure i poveri esistono, nonostante gli sguardi di disprezzo lanciati dai borghesi del “ceto medio”, imbabuccati nei loro cappotti di pelliccia e stravaganti cappelli a cilindro, nei confronti di Totò ed i suoi amici barboni, che vivono in baraccopoli fatiscenti, dove si lotta per un posto sotto un caloroso raggio di sole, la cui luce artificiosa, nella sua palese finzione, sottolinea con gran poesia della quotidianetà, più di tante opere di denuncia civile successive, la chiara allegoria socio-politica sottesa al film.
Totò sogna un “luogo dove un buongiorno significhi veramente buongiorno”, una follia nella capitale economica dell’Italia, dove ognuno è talmente preso dai propri ritmi frenetici, che se uno sconosciuto gli porge un saluto, è più facile che venga mandato a quel paese per la perdita di tempo procuratagli, che ricambiato del gesto.
Tra i suoi amici barboni, Totò trova semplicità, schiettezza, compagnia, allegria e felicità, pur vivendo di fatto in una baracca fatta di rottami, tra molti disagi della quotidianità di tale condizione, aggravata dalla violenza della polizia scatenata scontro dal proprietario del terreno, il signor Mobbi (Guglielmo Barnabò), che svuole sgomberarli per sfruttare il petrolio presente nel sottosuolo.
La denuncia sociale, si unisce al fantastico, tramite i desideri realizzati da Totò, tramite la colomba bianca datagli dallo “spirito” della madre adottiva, grazie alla quale riesce, con il potere della sua “immaginazione”, a respingere i tentativi di irruzione della polizia nel campo.
Elogio illimitato della fantasia, in un contesto che dovrebbe esserne privo del tutto. Se si possiede essa, la realtà quotidiana può essere affrontata con contagiosa felicità, arrivando a superare le stesse barriere fisiche del mondo empirico.
Nell’eccessivo squilibrio narrativo della seconda parte, De Sica deframmenta il mondo reale, fino a romperne del tutto i confini, proiettando una possibile uguaglianza e felicità sociale aperta a tutti, in un orizzonte lontano, un altro regno addirittura, non nascondendo una nota di pessimismo nella pur felice conclusione finale, che fa sì, come Miracolo a Milano, assieme a Sabrina di Billy Wilder (1954) e L’Intendente Sansho di Kenji Mizoguchi (1954), risulti la più grande fiaba/leggenda della storia del cinema, per l’uso intelligente fattane i tali stilemi, quanto soprattutto per l’acutezza di ingegno, nel giungere ad una conclusione volutamente positiva volutamente “irreale” per i protagonisti, negando  al contempo qualsiasi possibilità di cambiamento di una realtà quotidiana ingiusta e diseguale; proiettando una possibile felicità in essa, in un orizzonte lontano nel tempo.

 

Francesco Golisano, Brunella Bovo

Miracolo a Milano (1951): Francesco Golisano, Brunella Bovo

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