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The Legend of Tarzan

Regia di David Yates vedi scheda film

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La recensione su The Legend of Tarzan

di alan smithee
3 stelle

Il trionfo della freddezza,della staticità da effetto speciale:nemmeno la statuarietà dei due protagonisti,fisicamente sin troppo perfetti,riesce a salvarci da uno spettacolone pirotecnico fine a se stesso che non crea alcun sussulto emozionale,finto e preimpostato come si presenta,ed in grado di farci rimpiangere altre prove più balorde ma vitali.

 

-“La primitività di tuo marito mi disturba”…dice il cattivo a Jane….

-“Mio marito non è una persona qualunque…” ribatte orgogliosa la donna poco dopo al suo mellifluo e perfido antagonista…

Tuo marito di qua, mio marito di là…pazzesco! Dialoghi assurdi, controsenso, fuori luogo…ALTRO CHE LEGGENDA!! Pare una soap di basso rango.

Non che ci illudessimo che questa ennesima e non proprio urgente versione cinematografica del personaggio mitico creato dalla fantasia di Edgard Rice Burroughs potesse in qualche modo riprendere le fila dell’ultima nobile versione uscita in sala, quella a cura di Hugh Hudson del lontano 1984, con Christopher Lambert e Andie McDowell.

E non che manchino a dire il vero i connotati storici di riferimento: anzi, la vicenda è anche piuttosto efficacemente calata nel contesto storico delle colonie africane, utilizzate nell’800 come vere e proprie miniere da sfruttare, svuotare, impoverire e lasciare sottomesse ed obbedienti alla mercé di coloni-vampiri senza scrupoli.

Ecco allora che un Regno Unito lungimirante si appresta ad inviare quel lord ancora giovane riconvertito alla civiltà nel film di Hudson, ma allevato in seguito a drammatiche circostanze, tra le braccia amorevoli di un primate, per verificare che gli effetti di una colonizzazione onnivora da parte del re del Belgio, non oltrepassasse i limiti imposti da diritti umani, a quell’epoca già esistenti ma più teorici che pratici, e dall’applicazione ancora molto fragile nei confronti dei nativi africani.

Poi la vicenda si sposta maldestramente sul lato personale, sotto forma di vendetta, coltivata per anni, da parte di un capo tribù a cui un Tarzan poco più che adolescente uccise il figlio, reo a sua volta di avergli ucciso con una freccia la genitrice gorilla: costui costringe il perfido inviato di Re Leopoldo a catturargli Tarzan in cambio di una manciata di brillanti in grado di risistemare le dissestate finanze del monarca belga, finanziariamente sull’orlo del crack .

Al di là di tutta queste vicissitudini contestuali, in realtà scenografia di puro contorno, il film si sviluppa meccanicamente ed eccessivamente travolto da un utilizzo smodato di effetti speciali tecnicamente in parte efficaci, ma in realtà spesso eccessivamente ridondanti, freddi ed incapaci di creare alcun tipo di pathos.

E dire che sia Alexander Skargard, coi suoi 40 anni imminenti splendidamente portati, sia Margot Robbie (afflitta qui da noi da una voce di doppiaggio che mette in risalto in modo estenuante una voce strillante che riesce a rendercela insopportabile) possiedono l’innegabile appeal fisico per poterci far vivere qualche percezione di emozione: invece proprio nulla.

Restando allora nell’ambito dei Tarzan minori, quelli degli adattamenti più controversi o scellerati, allora meglio, molto meglio, la tanto vituperata versione del 1981 a cura dello simpaticamente ed imprudentemente scellerato John Derek: completamente privo di talento cinematografico, ma grande intenditore di donne (la triade di valchirie bionde dalla bellezza ineguagliata Ursula Andress/Linda Evans/Bo Derek sono in qualche modo passate sotto la sua “ala” protettrice di marito, regista e produttore) Derek procede, consciamente o meno, fuori tema, reo di intitolare il film “Tarzan l’uomo scimmia” e poi di concentrarsi comprensibilmente (che poi è la vera risorsa del film, in realtà) sulle grazie di una Bo Derek al culmine della propria avvenenza.

Ma almeno in quel caso il film, abbagliato dalla resa erotica della protagonista (e del suo efficacemente animalesco partner), ci regala un minimo di emozioni primitive, di sentimento se vogliamo, magari istintivo, animalesco, ma pur sempre effetti un accenno di vitalità che qui invece latita clamorosamente.

E David Yates, dopo i vari ultimi Harry Potter, tutti uguali e tutti inevitabilmente campioni di incassi che lo hanno reso più un imprenditore di cinema, che un cineasta proteso a coltivare una forma d’arte, si rende responsabile di tutta questa frigidità e piattezza emozionale, che affligge il fumettone meccanico ed esageratamente rocambolesco, nel quale anche gli altri noti attori coinvolti, finiscono per essere travolti dallo schematismo delle marionette a cui son costretti a dare vita (Christoph Waltz poi, nonostante i due Oscar guadagnati -di cui a mio avviso solo uno davvero meritato - e l’usurante sua tendenza ad abbonarsi ai ruoli da “mechant”, comincia davvero a stufare quanto a gigioneria senza ritegno e smodata tendenza a ripetersi sempre nello stesso personaggio.

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