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The Legend of Tarzan

Regia di David Yates vedi scheda film

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La recensione su The Legend of Tarzan

di M Valdemar
2 stelle

 

locandina

The Legend of Tarzan (2016): locandina



Così come Tarzan ha un richiamo amoroso per ogni specie (per ogni evenienza), chissà se i produttori di codesta imprescindibile nuova avventura del re della giungla ne hanno (pensato) uno per gli spettatori.
Beh, se l'avevano, non funziona. Per nulla.
Fuori fase per concepimento, maldestro nella realizzazione, mediocre nella resa, The Legend of Tarzan - sorta di sequel/reboot - cerca una sua identità (ovvero un prodotto ad alto budget fruibile dal pubblico di oggi con vista su una possibile anelata saga) già col palese tentativo di neutralizzare/bypassare i celeberrimi mantra dell'iconico personaggio (dall'«Io Tarzan, tu Jane» all'inconfondibile urlo ai noti capitoli che descrivono nascita e crescita del mito, sparati nell'incipit e in flashback didascalici) facendone mero e sbrigativo oggetto di autoscherno. Fuor di cotanta idea, il sommo vuoto.
Riempito da una storia che procede per banali archetipi, sani principi e sottotesti manichei, svolte unidirezionali e intuibili con discreto anticipo, da dialoghi imbarazzanti e scene improbabili (il buon americano che zompetta qua e là nella giungla per poi palesarsi al momento opportuno; l'orda di animali che distrugge un intero villaggio e porto per poi scomparire), da personaggi monodimensionali e mai convincenti (a partire dal protagonista tormentato più dagli addominali tartarugati che dal suo passato e dalle sue azioni future), da una natura lussureggiante di flora&fauna ad elevato grado di "naturale" CGI.
A lussureggiare semmai sono la mancanza di rimo, i momenti di stanca, in attesa di un cambio di ritmo e di azione che, quando (in teoria) avviene, è già troppo tardi e malgestito, sterile, privo di alcuna forza ed efficacia.
A conti fatti, un'avventura priva di vero spirito ed epica avventurosa: déjà-vu a parte, l'unico aspetto che emerge è la - goffa, scarsamente ispirata - manovra di aggiornamento ai tempi. Della Jane non più donzella di accompagnamento ce l'hanno contata allo sfinimento: eppure, tra sospiri d'amorosi sensi e richiami e una tenacia più nelle parole che altro, alla fine deve essere salvata (e il film sta tutto lì: grande novità); mentre il prezzemolino Samuel L. Jackson in pratica funge da dispositivo di alleggerimento, come nei cinefumetti più in voga (roba ridicola oltre che stravista). D'ordinanza - di quelle pleonastiche, stitiche, ottuse - il tedioso villain di turno (Christoph Waltz costretto a ripetere un repertorio noto): vedi sopra. Che farà una fine (banale) - fuori schermo, come tutto il resto d'altronde - che si merita (lui sì, lo spettatore meno: dettagli).
Nel finale edificante e che più lieto non si può (la sconfitta e ritirata degli uomini bianchi-cattivi-schiavisti avido dei tesori del Congo, la chiamata alle armi/unione degli animali della giungla tutti, il "perdono" del capo tribù a cui Tarzan aveva accoppato il figlio, l'evento bello per eccellenza dell'ultima scena) il senso ultimo e unico di un'opera piatta, prevedibile, inutile, linda, beceramente convenzionale e prudente, che trasuda zero erotismo, zero passione, zero violenza, zero spettacolo, zero complessità narrativa-psicologica-filmica-estetica, zero gocce di sudore.
Non bastano un Tarzan fisicamente attraente (un Alexander Skarsgård così fuori posto da far rivalutare persino Christopher Lambert) e una Jane/Margot Robbie limitata unicamente a sgranar i grandi occhi verdi - ora gioiosi ora grintosi ora romantici -, peraltro con un'intesa rivedibile, a fare un film. Tanto meno a far rivivere le gesta del personaggio creato più d'un secolo fa da Edgar Rice Burroughs.



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