Regia di Jason Lew vedi scheda film
Second Hope (Chance, Occasion, Opportunity, Possibility), Human Neglect (CareLessNess, Indifference, Negligence, Laxity). Il termine burocratico "negligenza umana" nasconde, piegato dall'ipocrisia, la colpa. La colpa ex lege - eccesso di legittima difesa verso il reo di violenza domestica - viene sublimata dall'espiazione. L'amore sovrasta tutto.
Giardino, orto, serra, appartamento, culla, utero, grembo, cella, abitacolo: per un breve momento protratto, quando lei si rifugia e nasconde - al posto dello spinone bastardino che fu (ucciso a calci e bastonate dal suo di lei ex reso fu da lei compagno) - nel trasportino, si può quasi avere l'impressione che il film possa prendere la strada di un (in)umano film bestiale (secondo varie declinazioni che spaziano attraverso un ampio spettro: “la Cagna” di Marco Ferreri, “the Pet” di D Stevens, “Bitch” di Marianna Palka, “Être Cheval” di Jérôme Clément-Wilz, “Pet” di Carles Torrens…).
Poi in seguito verranno le vere, autentiche, reali gabbie (non solo di prigioni, canili, galere e rifugi coatti) e bestie (non solo animali quadrupedi ma pure bipedi antropomorfi) nelle vesti di botole e ciclopi.
Comparto tecnico di giovani coetanei del regista e sceneggiatore (“RestLess” di Gus Van Sant) - e in alcuni casi attore (“All God's Children Can Dance”, “Pauline Alone”), ma non qui -, Jason Lew: fotografia di Bérénice Eveno (assistente di Wally Pfister, poi : “Throwing Shade” e “Her Story”), musiche di Tim Hecker [musica elettronica ad ampio spettro: “Harmony in UltraViolet” (il sound design è di Anthony Vanchure)] e montaggio di Dominic LaPerriere (il più esperto, per lo meno cinematograficamente, della squadra - “Fishing WithOut Nets”, “Red Knot”, “NewComer”, “Kicks”, “Dayveon” - e in alcune scelte e passaggi si percepisce questa sicurezza).
Alcuni momenti sono un po' troppo retorici e/o grezzi - penso a quando lui dice a lei: “Quello ero io, là dentro, mi dispiace” [“I'm so sorry. That was me. I'm sorry. That was me there. I'm sorry. That was... That was me. I'm sorry.”], e al lungo addio nel sotto finale -, e l'economia del film ci avrebbe guadagnato se fossero stati asciugati un po'.
Elisabeth Moss è una certezza malleabile e inscalfibile: allucinante, meravigliosa. Boyd Holbrook (“Little Accidents”, “Jane Got a Gun”, “Morgan”, “CardBoard Boxer”, “Logan”, “the Predator”) è una piacevole conferma/sorpresa. Octavia Spencer, post-”the Help” (e Oscar by Academy Award), (si) concede un piccolo ruolo (tra un BlockBuster e un cinema biografico/strappalacrime per signore e signorini), e lo porta a casa, e tanto di cappello. Bellissima piccola parte per l'ottimo caratterista (“the Men Who Stare at Goats”, "Omar") Waleed Zuaiter.
“the Free World” - l'Hortus Conclusus, l'Eden ch'è il Mondo - termina formalmente là dove "PickPocket" (e “American Gigolo”) finiva(no), ma al contempo sostanzialmente (re)inizia là dove "PickPocket" (e “American Gigolo”) terminava(no): “the Free World” è, da questo punto di vista -[perché i protagonisti dell'opera prima dietro alla macchina da presa e non "solo" ad uno scrittoio di Jason Lew lo sanno sin da subito che... (il termine burocratico "negligenza umana" nasconde, piegato dall'ipocrisia, la colpa, e la colpa ex lege - eccesso di legittima difesa verso il reo di violenza domestica - viene sublimata dall'espiazione, mentre l'amore...) l'amore - "egoista", ma rispettoso del prossimo - è quasi tutto ciò che conta e vale davvero, e sovrasta ogni cosa: si, c'è sentore di soap-opera, ma proviene dall'esterno: sono lacerti, rigaglie e cascami di esperienze "cinematografiche" altre, che nient'e null'hanno a che spartire con l'opera in questione]-, nel bene e nel male, un loro prosieguo, implementazione, variazione, evoluzione, fin...
...là dove le nuvole fanno le loro cose da nuvole.
* * * ½ (¾)
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