Regia di Francesco Amato vedi scheda film
Con molta sofferenza ed un velo di tristezza bisogna ammetterlo, o almeno iniziare a porsi il dubbio: il naturale istrionismo di Toni Servillo, la sua devastante gigioneria sono poca cosa, forse non esistono (o se esistono si fanno invisibili e quasi fastidiosi) senza una sceneggiatura che li incanali lungo binari espressivi che si facciano ricordare. La logorrea molesta di Antonio Pisapia, le tristi evoluzioni verso l’amore e la morte di Titta Di Girolamo, la noia esplosiva di Jep Gambardella cedono ora il passo al campionario di luoghi comuni che è Elia Venezia, psicoanalista ebreo (agghindato a mo' di Freud). Amato ed i suoi sceneggiatori non sono Sorrentino: e questa è una naturale verità persino offensiva nella sua chiarezza. È un problema di linguaggio, di combinazione delle parole, di snodi narrativi che si fondano con la musica, la mimica, le immagini degli esterni (barocchi, espressionistici, eccetera). Ma non solo: contenere il genio recitativo di Servillo in un bignamino di sospiri, occhiatacce, orgogliose rivendicazioni della propria alterità e superiorità intellettuale è un delitto di lesa maestà. Quella scoperta della piccolezza umana, così mirabilmente espressa da Toni in altre prove (in quelle prove) attraverso l’ordalia del quotidiano e delle sue trappole, in Lasciati andare diventa mero orpello di sceneggiatura, assunto chiarissimo fin dalle prime battute, laddove il film rivela prestissimo le sue lise carte e si garantisce pronta intelligibilità presso gli spettatori. L’uomo stanco, disilluso, che ha rinunciato alle gioie della vita, ai sorrisi, al sesso, e suo repentino riscatto che passa attraverso la voglia di vivere di una ragazza scombinata ma entusiasta, triste e mattacchiona, spagnola, per giunta, ergo caliente, latina, trascinante. Ragazza che segna una ovvia cesura col circostante: i pazienti affetti da strampalate manie, una moglie elegante ed inconsistente, l’ambiente ebraico raffigurato con i più vieti luoghi comuni – Elia, non vi stupite, è un tirchio senza rimedio-. Vi sembra questo un personaggio da Toni Servillo?
E infatti Toni nostro si annoia assai (direbbe l’alter ego Jep) e non lo manda a dire, né a recitare. Vessato da una scrittura che gli impone (ma senza esagerare) le classiche espressioni del napoletano bene (noia, superbia, tiriamo comunque a campare), penalizzato da un doppiaggio post-produzione francamente imbarazzante, l’attore (ed il suo personaggio) annaspa, cade, si rialza, prova a sbraitare e non ce la fa, sussurra, bisbiglia, addirittura prova un bacio, si innamora forse ricambiato (ma poi la vita si sa come va: l’esperienza con la spagnola gli sarà servita a recuperare le energie e l’amore per quella moglie ancora piacente). Tutto questo con l’altissima professionalità ma anche il sussiego del grandissimo attore in un ruolo sbagliato, non afferente alla proprie corde, piccolo scantonamento che non sembra tuttavia possedere il positivo germe dell’(auto)convinzione.
Quanto al film, siamo nel vastissimo territorio dell’innocuo: storiella edificante, mai volgare, con personaggi cui ti affezioni presto, se riesci a vincere il venticello dell’antipatia che spira sottile e infido. Un raccontino morale di caduta, tentativo di ripresa, finale esplosione di positività, battutine all’acqua di rose, location a contrasto (l’intellettuale in palestra, la burina spagnola in teatro), personaggi sbozzati senza troppe cesellature. Poca cosa, poco danno. Cinema medio, come al solito in Italia. Che anche Servillo dovesse tuttavia prestarsi a questa fiera dell’antiquariato cinematografico, del modernariato di sinossi e sintassi filmica, resta un mistero che un giorno qualcuno avrà il dovere di spiegare. Affinché Servillo non paia avviato (è presto, in fondo) lungo la china (lacrimuccia) di Robert De Niro.
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