Regia di Oliver Stone vedi scheda film
Per la mia 100esima recensione, un film "speciale"...
Colpo grosso e big score per il regista, il quale giunge a sfiorare il capolavoro con questo suo terzo rilevantissimo opus, da lui scritto (in collaborazione col vero Boyle), diretto e prodotto nel bel mezzo del dispiegarsi degli eventi, quando ancora i “tizzoni” erano belli ardenti. Il risultato finale? Come accennato, una delle sue opere più riuscite e incendiarie, indignate e pregnanti, furiose e destabilizzanti.
Salvador. Il nome stesso, a chi conosca anche solo un poco la storia del Novecento, dovrebbe risultare – purtroppo e tristemente – più che sufficiente ad evocare alla memoria agghiaccianti immagini di alcune delle più abiette bassezze cui è capace di giungere il genere umano. E non si tratta affatto d’un esagerazione enfatica, come appunto questo grandissimo film dimostra con tremenda efficacia, indomabile forza ed impeto.
L’operazione di Stone risulta pienamente apprezzabile già solo in virtù del suo esser riuscita a scansare pressoché ogni magniloquente “americanismo” al fine di produrre uno dei più diretti, intransigenti ed inflessibili atti d’accusa in celluloide della politica estera statunitense.
Squarcia il velo dei luoghi comuni, delle narrazioni retoriche e patriottarde, nonché dell’accecamento ideologico imperialista, coll’intenzione di portare alla luce la verità ultima, “pura e semplice”, di quel che le suddette retoriche strombazzate ai quattro venti finiscono per produrre nel mondo reale. Quelle parole d’ordine intrise di fanatismo e paranoia che tanta miseria e distruzione hanno fatto calare sulle teste delle popolazioni diseredate di mezzo mondo, dannate delle terra, sono ben sintetizzate nella fugace “comparsata” del “grande” Reagan.
Lo si sente infatti affermare che “Gli Stati Uniti stanno cercando di arrestare l’infiltrazione nelle Americhe di terroristi e forze esterne e di quelli che non puntano al solo El Salvador ma, ho idea, all’intera America Centrale e poi probabilmente a quella Meridionale e, ne sono certo, infine all’America del Nord” (“[The United States is trying] to halt the infiltration into the Americas, by terrorists and by outside interference and those who aren’t just aiming at El Salvador but, I think, are aiming at the whole of Central and possibly later South America and, I’m sure, eventually North America”).
Degno di nota il passaggio da quel “I think” al perentorio “I’m sure”. Comunque, per il resto si tratta del consueto rantolo/delirio da terrorismo psicologico che così tante – troppe – atrocità ha di volta in volta giustificato.
E’ risaputo: in ottica “anticomunista” è opportuno e preferibile stroncare sul nascere ogni minimo accenno di ribellione popolare (sempre e comunque, senza eccezione alcuna, “rossa” ed “eterodiretta”, va da sé) che qualora riuscisse sciaguratamente nel suo intento di portare un qualche miglioramento nelle condizioni di vita delle masse naturalmente costituirebbe un piccolo, perniciosissimo, passo in direzione d’una terribile dittatura comunista capace poi d’allungare le sue “diaboliche” spire per il mondo intero.
Vogliamo mettere la scintillante frontiera contraria della democrazia a suon di bombe e colpi di stato, torture e massacri, eccidi e colonialismo economico? Quella sì che assicura stabilità, progresso, crescita e soprattutto la giusta serenità che serve alla prosecuzione del business. D’altronde, non è forse proprio un personaggio dell’ambasciata all’interno del film ad affermare che “l’alternativa sarebbe di gran lunga peggiore” (“the alternative would be far worse”)? Certo che sì. Peggiore e intollerabile. E’ l’eterna lotta democrazia vs. dittatura, bellezza, qua mica si scherza.
Ma – per ritornare più strettamente al film – si sarà ormai capito come lo stesso di dimostri insomma in grado di suscitare le riflessioni più disparate. Nel corso d’una visione che – peraltro – regala agli spettatori alcuni sensazionali pezzi di bravura che rimangono stampigliati a fuoco nella memoria (un esempio per tutti: la scioccante sequenza della collina ricoperta di cadaveri). E che non dimentica di confrontarsi anche con un paio di eventi emblematici di quegli anni, ovverosia l’omicidio dell’arcivescovo Romero (“teologia della liberazione”, anyone?) e lo stupro e l’assassinio di quattro suore americane, in modo tale da rendere presente allo stesso tempo come quel che si vede non sia affatto campato per aria ma ben radicato nella realtà dei fatti e come appunto si vivesse in quegli anni e in quei luoghi.
E’ in questa cornice storica semi-documentaristica che s’inseriscono le tribolazioni del protagonista Boyle, il quale – nel suo rapportarsi con i connazionali sul posto – rivela neanche troppo in sordina un'altra coppia di punti salienti della narrazione.
Innanzitutto, il confronto impietoso (per il secondo) tra il giornalismo d’inchiesta, disposto a calarsi realmente negli avvenimenti, in prima persona, anche a costo di rimetterci la vita, e d’altro canto il giornalismo “da salotto”, hotel a cinque stelle e ripetizione a pappagallo di quella che rapporti militari preconfezionati asseriscono essere la “realtà delle cose”.
Inoltre, si mostra l’assoluta indifferenza della dirigenza statunitense nei riguardi delle sofferenze cui sottopone centinaia di migliaia di poveri “campesinos” indifesi per tramite delle politiche che così ardentemente sostiene (emblematico il momento del dialogo perso in partenza col generale reduce dal Vietnam). Perché, si sa, di nuovo: bisogna tenere a mente il fatto che l’alternativa sarebbe di gran lunga peggiore.
Salvador in ogni caso non è di certo opera perfetta e, sì, talvolta il protagonista e relativo “accolito” possono risultare un tantino sgradevoli, ma il punto è proprio quello: pur con tutte le sue ambiguità, Boyle però non si tira indietro, non si fa remore nell’andare laddove è veramente la notizia, nella prospettiva di riportarla senza preclusioni ideologiche, ribaltamenti strumentali o annacquamenti sistemici (compito di per sé sovrumano visto e considerato il supremo conformismo filo-governativo della stampa mainstream, ben esemplificato dal personaggio della giornalista “rivale” capace di sostenere seriamente l’insulsa teoria dell’El Salvador democratico).
E dunque in sottofondo emerge per l’appunto la consapevolezza di come sia proprio la connivenza degli stessi mezzi di comunicazione di massa a permettere la perpetuazione dello status quo, a permettere in sostanza che simili deliri imperialisti rimangano prevalenti e dominanti ancora oggi.
E’ il film stesso, d’altra parte, a ricordarci (nell’86) come i finanziamenti militari americani siano continuati a fluire copiosi nelle casse del Paese centroamericano. Ed ogni nuovo finanziamento significa nuovi arresti, nuove torture, nuove stragi.
Al netto di qualche digressione di troppo (in particolare riguardante i “bagordi” del protagonista e del suo compare), Salvador si dimostra dunque film concentrato e profondo, in grado di andare dritto al punto: una vera e propria discesa nella più bieca brutalità e nella più cieca follia, col montaggio convulso e frenetico che riflette perfettamente quel senso di caos generalizzato che ben contraddistingue il clima del periodo.
Siamo in presenza d’uno dei migliori “exploit” di Stone, ribadiamolo, capace di rifuggire qualunque facile retorica ed ipocrisia (non dipinge per nulla un quadro manicheo e per accorgersene basta guardare con attenzione la sequenza prefinale dello scontro e le azioni compiute dai guerriglieri. Tuttavia, dipingere un quadro complesso non significa per il regista scadere in una ridicola oltreché mistificatoria “equa distribuzione delle colpe” e non a caso viene per diretta conseguenza mostrato chiaramente come le responsabilità ricadano decisamente più sua una parte che non sull’altra). Come c’era da aspettarsi da un film del genere ad essere evitata è anche qualunque melliflua e zuccherosa lieta fine in stile hollywoodiano: il finale è uno dei più memorabili ed insieme devastanti di sempre. Insomma, non serve aggiungere altro. Ecco a voi il miglior film misconosciuto di Oliver Stone. Da non perdere.
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