Per certi versi potrebbe essere un paradosso. Stiamo parlando della tendenza sempre più invalsa nella cinematografia italiana che vede in aumento il numero di registi esordienti provenienti dal documentario. Nato come alternativa ai prodotti di finzione il formato in questione almeno alle origini rappresentava con diversi gradi di approssimazione quanto di meglio si potesse avere in termini di riproduzione oggettiva del mondo circostante. Una certezza che nel corso degli anni ha subito modifiche ed accelerazione che in qualche modo ne hanno minato le logiche arrivando a metterne in discussione il metodo epistemologico. Prova ne sia, e qui ne abbiamo dato ampio resoconto, il fiorire di opere che pur nel rispetto dei principi generali sono ricorse sempre più spesso a pratiche tipiche del cinema di finzione fino al punto di ribaltare - e qui sta la bizzarria - le posizioni di partenza. "Le ultime cose" di Irene Dionisio appena passato alla Settimana della critica potrebbe essere considerato alla pari di altri che lo hanno preceduto la naturale conseguenza di ciò che abbiamo detto. Collega più giovane dei vari Pietro Marcello, Leonardo Di Costanzo e tanti altri la Dionisio altro non fa che esasperare le pratiche appena evidenziate occupandosi con sguardo da entomologa e passo da narratrice di un tema - quello del debito istituzionalizzato attraverso il fenomeno che ruota attorno ai banco dei pegni - tanto scottante quanto difficile da filmare per le implicazioni legate non solo alla delicatezza della situazione ma anche alla sicurezza (e lo vediamo nel corso del film) delle persone coinvolte in questo tipo di attività.
In "Le ultime cose" a farla da protagonista ed a tenere insieme i tre filoni narrativi che si intrecciano nella Torino dei nostri giorni è per l'appunto il banco dei pegni dove, per diversi ragioni, si trovano a interagire Stefano, giovane perito appena assunto per occuparsi della stima dei pegni affidati all'istituto, Michele, pensionato a corto di soldi disposto ad aiutare che lucra sulle disgrazie dei vari debitori e Sandra, trans respinta dai genitori e perciò obbligata a cedere i suoi pochi averi per potersi mantenere. Forte di un'unità di luogo che nel film assume ben presto le sembianze di un leviatano burocratico e bizantino che lascia poco spazio alle prospettive di ripresa dei suoi sfortunati clienti, "Le ultime cose" più che nel privato delle singole vicende, appena accennato da brevi incursioni nella vita famigliare dei personaggi, riesce a sovrapporre senza forzature la fenomenologia relativa al funzionamento e alle dinamiche vigenti all'interno dell'apparato lavorativo con la drammaturgia necessaria a trasformare il reportage in favola. Così se da una parte apprendiamo che al peggio non c'è mai fine e che alla mancanza di soldi dei poveretti (interpretati nei ruoli di contorno da persone che realmente hanno vissuto questa esperienza) ci si mette anche la corruzione degli impiegati dell'azienda pronti a speculare sul valore dei depositi effettuati, dall'altra ci si ritrova a seguire le traiettorie esistenziali dei personaggi e l'insondabile mistero delle cose umane. A spiazzare in positivo è la scelta un'esposizione che privilegia il lato tragicomico della vicenda, con la musica surreale - di Matteo Marini, Gabriele Concas, Peter Anthony Truffa - scelta per accompagnare molte le sequenze più drammatiche, quelle ambientate nel luogo della tragedia e all'interno dell'istituto bancario in cui le difficoltà dei singoli si tramutano in calcoli di matematica finanziaria. Rimane qualche perplessità sulla consistenza della sequenza conclusiva e sulla decisione di chiudere con un ellissi che dovrebbe trasmettere il senso di un destino ineluttabile e mortifero e che invece ci lascia la sensazione di un finale ancora da scriversi; rimasto, forse, nella testa di una giovane autrice comunque all'altezza del palcoscenico che le è stato offerto.
(ondacinema.it/speciale 73 festival di Venezia)
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