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Sons of Anarchy

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La recensione su Sons of Anarchy

di scapigliato
9 stelle

Sons of Anarchy è una serie a tratti ripetitiva e gira spesso su stessa visto che gli snodi narrativi sono quasi sempre gli stessi: due bande si incontrano e fanno un affare, ci scappa qualche morto, qualcuno ha tradito, si fa l’accordo con una nuova banda, ci si vendica e tutto ricomincia da capo. In questa ossatura lo sviluppatore della serie Kurt Sutter ci infila l’improbabile: bugie, segreti, inganni famigliari, verità nascoste e indicibili più un groviglio di intrighi, alleanze, controallenze, trappole, compromessi mortali e omicidi gratuiti e inaspettati. Un’impalcatura suburbana e marginale, semi-redneck se vogliamo, con tanti dispositivi melodrammatici e un coté pulp a dare un colpo anche alla botte.

Sono anche le parole dello stesso Sutter a confermare la furbata melodrammatica come uno degli elementi base della solidità della serie: «Sons of Anarchy è una soap opera adrenalinica, è una fiction pulp sanguinosa con personaggi altamente complessi». E complessa è anche la lettura politica della serie che la rende controversa politicamente – armi, pornografia, vendetta privata, intimidazioni, legge del taglione, corruzione della polizia per la giusta causa. Ha comunque il pregio di essere un oggetto completamente diverso nel panorama mainstream della serialità americana. Un incrocio tra A-Team e Hazzard, ma di segno opposto. Qui, infatti, i valori e i pilastri della destra cristiana americana, sono il bersaglio preferito della serie che li smonta puntata dopo puntata corredando il tutto di un linguaggio sboccato e pochi giri di parole.

Altra faccia della medaglia è il risveglio spirituale, quasi mistico, di alcuni personaggi, qualche sottile pizzicata al Presidente Obama e soprattutto una complessità tragica dei vari caratteri, sul modello scespiriano, che diventa il vero punto di forza di una serie che tra alti e bassi e snodi narrativi improbabili riesce a coinvolgere il pubblico proprio giocando sull’universalizzazione dei sentimenti dei suoi protagonisti e il loro appeal anticonvenzionale.

L’ambiguità politica della serie è quindi tutta giocata sulle alleanze e i tradimenti tra biker, neri, messicani, irlandesi e fratellanza bianca, il tutto condito con epiteti e insulti poco corretti politicamente. Le stoccate ad Obama, seppur lievi, e l’appoggio ai due candidati repubblicani a sindaco di Charming, disegnano i Sons come un’organizzazione più vicina alla destra che alla sinistra: «Ci piace la fica che pende un po’ a destra» dice Jax Teller, personaggio affascinante quanto discutibile la cui complessità cade tutta sulle spalle di Charlie Hunnam che dal ragazzino gay mingherlino di Queer as Folk si trasforma nel rude e fatale bad boy dei Sons, preservando comunque quel sorriso e quegli occhi che tradiscono un’anima pura, da antieroe senza macchia. L’ossimoro aiuta a capire la natura ambivalente, quindi problematica e quindi moderna, del suo personaggio e di lui come attore.

Il suo giovane Amleto, non solo ripercorre il travaglio dell’eroe tragico di Shakespeare vivendo tra un patrigno che gli ha ucciso il padre per prendersi il trono dei Sons e una madre compiacente in continuo disequilibrio morale ed affettivo, ma è anche un giovane principe che una volta arrivato a sedersi sul trono e dopo aver visto morire troppi amici, diventa un re dispotico pervaso dal demone del potere e dell’onnipotenza. Il leone che gli ruggisce dentro, complice l’estetica appunto leonina dell’attore, condiziona la sua performance esagerandola nei toni e nella recitazione. Hunnam riesce comunque, segnale questo di grande controllo dell’attore sul personaggio, a dar vita a scarti recitativi dove il suo sanguinario principe svela un’anima dolce e misericordiosa: l’agnello vestito da lupo, e non viceversa.

Jax Teller è il dubbio. Il fantasma del padre, che rivive nelle pagine del diario lasciato al figlio, torna regolarmente a confessargli tutte le sue incertezze e i suoi timori per il futuro di un club che ha perso la spinta ribelle e rivoluzionaria delle sue origini. Ora è un’organizzazione marcia immischiata in affari criminali con l’IRA, i cartelli messicani, il White Power e varie mafie etniche. La disillusione del padre ricade così sul figlio, incapace di recidere i legami con un mondo, la subcultura gangsteristica americana, di cui si sente parte inscindibile, determinando così non solo ogni sua scelta, ma anche la parabola narrativa del personaggio e di tutta la serie.

Il viaggio dell’antieroe vivrà quindi tre tappe: la spavalderia iniziale appena fuori di galera, caratterizzata dall’idea di abbandonare il giro; la determinazione a restare per sistemare le cose, scoprire le verità nascoste, lasciandosi guidare dal febbricitante demone dell’onnipotenza; infine la serena rassegnazione al destino a cui corre incontro sorridendo. Dall’adolescenza disturbata alla maturità adulta, passando per gli inferi della giovinezza rabbiosa. Il Jax Teller di Charlie Hunnam è anche tutto questo. Una variazione sul tema archetipale del bad boy nella cultura americana che da Huckleberry Finn in avanti ha prodotto eroi, antieroi e anche varie mostruosità in sintonia con i caratteri di un paese diviso tra l’amore per la libertà e le diversità delle sue origini e l’odio e il sangue nel quale le hanno affogate per preservare lo standard bianco e protestante.

La serie tende infatti a fotografare criticamente l’universo di un’organizzazione criminale dove l’odiosa e intollerabile legge della strada ne è l’impalcatura sociale e morale – gerarchie da rispettare, pestaggi, intimidazioni e uccisioni rituali come “messaggi da dare”, il regolamento di conti, il codice morale del club, il senso di appartenenza, “fare brutto”, il rispetto alla gang, l’onore che maschera la debolezza, il fatto che se uno ti pesta i piedi tu glieli devi pestare più forte e così via.

In realtà, Sons of Anarchy vuole giocare sottilmente di empatia. Attraverso il fascino criminale e il ribaltamento del senso civico del dovere e del rispetto della legge, fotografa una realtà sociale molto attuale nel mondo globale di oggi: il gangsterismo giovanile. Le bande etniche e le varie fratellanze in cui si rifugiano giovani sradicati e frustrati, orfani di una società che li ha messi ai margini e li ha spinti a delinquere per trovare un proprio posto nel mondo, sono il luogo antropologico di una fauna umana sprovvista degli strumenti culturali ed etici per convivere con i propri simili, inseguendo la chimera di un’esistenza facile, fatta di lussi e privilegi, gli stessi a cui ci ha abituato il mondo della politica, della finanza e del commercio.

Il fascino per il mondo criminale e per una vita adrenalinica fatta di rischi, alcol, droga, armi da fuoco e tanta fica, si trasforma in tragedia non tanto attraverso i facili sentieri dell’apologo morale, bensì attraverso la narrativizzazione di un isterismo e di una compulsione nate dall’idea distorta di una vita in cui l’imperativo è vincere, dominare e sottomettere. Inoltre, rintracciando una critica allo stile di vita e alle scelte politiche dei Sons, personaggi che anche dal punto di vista umano sono inquietanti e indifendibili, si può vedere la serie come la rielaborazione di un lutto nazionale, il lutto per un’età dell’oro, romantica e libera, ovvero il West, che ha lasciato il posto al cieco capitalismo, al profitto, al business. I motociclisti di Sons of Anarchy non sono più i “romantici avventurieri” delle origini americane, si sono corrotti. Tutto si è corrotto con l’arrivo del dio denaro che ha tolto valore alla verità delle cose della vita per darlo alle menzogne, ai traffici, agli affari e all’accumulo di ricchezza. Questo già veniva perfettamente simboleggiato in Pat Garrett and Billy the Kid (1973) di Peckinpah o in C’era una volta il West (1967) di Sergio Leone. Il tema ritorna brutalmente in Sons of Anarchy trasportando ai giorni nostri la figura romantica del cavaliere/centauro corrotto dalla modernità.

Acquista così un valore maggiore il sacrificio finale corredato da simboli cristologici – il look dell’attore e le braccia aperte a croce. È la fine di un passato glorioso ormai perso nella mitologia dei ricordi. Se le ultime puntate non brillano per originalità, accumulando solo colpi di scena che ci si aspettava da tempo, la scena di congedo della serie ci regala molti brividi. Nell’immagine del fuggitivo inseguito da una fila di pattuglie della polizia sulle desolate strade californiane ritornano alla mente capisaldi dell’immaginario ribelle americano come Punto zero (1971), Sugarland Express (1974), Convoy (1978) e Thelma & Louise. E il cerchio si chiude. Il corpo indomito dell’America selvaggia è stato nuovamente fermato, ucciso, massacrato. La narrativizzazione della deriva superomistica del ragazzo nato libero e leale, motivato e giusto, trova così il suo epilogo.

In questo processo narrativo, il personaggio di Jackson Teller è il corpo della tragedia, l’insieme organico delle fisiologie del dramma. Nella sua recitazione giocata sull’accumulo di nervosismi, collere e facili eccitabilità, si rintraccia la rabbia e la furia dell’atto attoriale con cui il suo personaggio convoglia su di sé i significati sottesi del dramma superomistico restituendoli come significanti. È il suo corpo ad essere oggetto di indomabilità e catastrofe. Le sincopatologie della sua recitazione, la contrazione continua dei muscoli facciali e l’irrigidimento del fisico nei momenti di tensione, come i sorrisi distensivi e i rasserenamenti del volto davanti agli affetti più cari, svelano l’ambivalenza del personaggio attraverso la sua fragile psicologia duale.

Charlie Hunnam, in questa decostruzione sincopata del suo Amleto, mette letteralmente a nudo il proverbiale re. Molti infatti gli shirtless moments dove l’attore mostra fiero tutta la sua fisicità, ma sono poca cosa in un’epoca di totale svestizione del tabù maschile. La questione cambia con il fattore rear. L’irruzione della nudità posteriore del principino amletico sembra viaggiare su due binari paralleli. Da un lato risponde alla domanda di voyeurismo del pubblico e dei fan dell’attore, abituati da sempre a vederlo nudo da tergo; dall’altro, la sua nudità ce lo mostra indifeso e arrendevole. Invece di offrire il fianco, offre la sua passività sessuale. Una lettura azzardata che però trova conferma nelle dinamiche omoerotiche di un club di soli maschi dove la donna oggetto, la grupie o la pornostar, serve solo a dare virilità ad un’immagine maschile compromessa ed irrisolta fatta di accessori totemico-feticisti come tatuaggi, anellazzi, giubbini di pelle e motociclette. Anche in questo aspetto, il vigore dell’attore vichingo, dello Snake Plissken del nuovo millennio, conferma la grandezza e la consapevolezza di Charlie Hunnam come autore di sé stesso.

Stesso discorso per l’azzeccato cast scelto per dar vita al club dei centauri. Da Ron Perlman, gigantesco villain scespiriano, a Kim Coates, passando per William Lucking, Ryan Hurst, Mark Boon Jr. e Katey Sagal, la matriarca anche lei di natura scespiriana, sono tutti in perfetta sintonia con i loro character del piccolo schermo, che tanto piccolo non lo è più. Anche caratterizzazioni come Coglione Solitario, Chucky, Unser, il grande Machete, al secolo Danny Trejo, i re del porno interpretati da David Hasselhoff e Tom Arnold, le varie troiette del club, il perfetto Peter Robocop Weller, il bel personaggio di Nero Padilla, il portoricano Juice, segreto oggetto di desiderio omoerotico e di ambigua filiazione dei seniors del club, Adrienne Barbeau nel ruolo della vecchia strega pedofila, quella “tettona” del tarantiniano Walton Goggins, lo psicopatico Lee Toric di Donal Logue, Happy e infine Big Eight, personaggio di grande e consapevole tragicità autodistruttiva nello spirito come nel corpo.

Su tutti, domina Charlie Hunnam che se ai più è conosciuto per le scene di rear nudity, per molti altri è invece un attore esplosivo ed istintivo, erede diretto del fisico e proteinico Tyler Durden di Fight Club, ma anche un lucido e consapevole professionista che fin dalla tenera età si è sentito portato per le discipline artistiche. Forse una sensibilità dovuta alla fuga della madre quando aveva ancora due anni, fatto sta che Charlie Hunnam dimostra di avere stile, libertà di scelta e un approccio vero e non prettamente commerciale ai progetti a cui si dedica.

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